Banca Dati "Nuovo Rinascimento" http://www.nuovorinascimento.org immesso in rete il 16 ottobre 1995 Riverci di medaglie della Ventura Befana della Corte dei Ferraiuoli (Siena, 1569 [1570]) a cura di Laura Riccò /c. 1r/ Riverci di medaglie della Ventura Befana de' Cortigiani Ferraiuoli. Con due ragionamenti: l'uno intorno alla materia delle Sorti, o Venture Befane, et l'altro intorno a' riverci di medaglie, et spetialmente a' proprii delle persone private; con brevissime dichiarationi nella fine sopra ciascheduno particolar rivercio. /c. 3r/ Proemio, o vero introducimento a' Riverci di medaglie della Ventura della Befana tratta da' Cortigiani Ferraiuoli l'anno M Dlxix. Col proemio appresso alle dichiarationi de' medesimi Riverci di Scipione Bargagli. [1] Fra l'altre maniere di piacevoli, ingegnosi et honorati trattenimenti che si costuman di dare in Siena a belle et valorose gentildonne, antica molto si truova esservi l'usanza che per la festa l'anno dell'Epifania si facciano et alla presenza di quelle si traggano Sorti, o Venture, le quali dalla voce alquanto alterata di tal festa Venture della Befana, o Befanìa sono nominate. [2] Costume sì come di certo parne intendere non poco usitato in molte altre nobilissime città ancora, ma nella nostra spetialmente di Siena si truova in vero così ricevuto et generalmente confermato, c'hoggidì par quasi ch'in prescritta legge trapassato vi sia del tutto, poscia ch'a non leggier fallo et mancamento reputato sarebbe a' belli spiriti in essa, per li quali massimamente /c. 3v/ si facesse alcuna professione di voler piacer'et servir'a nobili et leggiadre donne, qualhora essi l'anno, nel detto tempo dell'Epifania, mancassero di mandar'ad effetto in qualunque maniera così fatta gentil usanza. [3] Ma prima che si venga hor qui per noi a narrar qual uscisse la Ventura questa volta de' Cortigiani Ferraiuoli, et in qual guisa introdotta et come rappresentata fosse, n'è paruto non esser punto fuor di proposito con brevissimo ordine di parole mostrar primieramente quanto fosse antica la cosa del trar le sorti, poi dire come cattive, o ree non siano le sorti di lor natura, ultimamente raccontar più et diversi modi onde si compongano, et diverse forme onde si traggano et s'introducano, et trarre et introdur si possano queste nuove Sorti della Befana, delle quali noi hora specialmente nel nostro breve ragionamento intendiamo alquanto di favellare. [4] Il trarre adunque in prima per sorte, o vero il rimetter'ad arbitrio della sorte che ci piaccia dire, alcuna cosa, generalmente in sé considerato, si può intender chiaramente non esser moderno, ma sì bene antico trovato, sì come l'auttorità d'antichi et approvati scrittori chiara ce ne rende et piena fede. [5] Omero in prima, antichissimo sì come /c. 4r/ famosissimo scrittore, nella grave sua opera della guerra troiana fa che per conseglio del discretissimo Nestore si rimetta nel voler della sorte qual de' principali campioni dell'esercito greco proferitisi a prender l'armi contra la persona del fortissimo Ettorre troiano dovesse haver l'impresa solo d'andar'ad affrontarlo, onde mettendo nove de' più prodi cavalieri greci la sorte loro, improntata ciascuno del suo proprio marco, o segnale, ne la celata d'Agamennone, quasi in urna di quelle, fu dal medesimo Nestore cavata la sorte d'Aiace. [6] Il latino Omero poi ancora nella sua Eneida ripose nel parer di fortuna coloro che dovevano haver'il carico d'essercitar'i nobilissimi giuochi apparecchiati da Enea in honor del morto padre Anchise. [7] Il medesimo autore, ancora nella medesima sua opera mettendone davanti agl'occhi nostri la porta scolpita et figurata del tempio della Cumana Sibilla, fenne veder'ivi tra l'altre figure intagliata la morte d'Androgeo, figliuolo del Re di Creta, data a quello già per invidia dagl'Ateniesi, et l'urna appresso delle sorti donde erano stati tratti poi ciascun'anno sette giovani d'Atene, destinati, per tributo in vendetta dell'occiso Androgeo, a dover'esser'cibo del monstro Minotauro entro il famosissimo laberinto della medesima isola rinchiuso. [8] Ma non rendon longa testimonianza i poeti che i lor più principali /c. 4v/ e più potenti dei per mezzo delle sorti si dividessero tra di loro tutto il nobile et immenso regno dell'universal macchina del mondo, a Giove la parte del cielo toccando, a Nettunno quella del'acque, et quella della terra et dell'inferno a Plutone, sì come questo è detto da Virgilio in persona di Nettunno, quando dall'impeto de' venti d'Eolo gl'era turbato il suo regno venutogli in sorte? [9] Il medesimo ancora è confermato da Claudiano, nobil poeta, in persona di Plutone parlante contr'a Giove per cagione del voler prender moglie, dicendo che se la suprema sorte gl'havea dato per parte sua i più bassi et oscuri luoghi del mondo, non gli havea tolto però le forze, l'animo et l'ardire. [10] Plauto oltr'a ciò, tra gl'altri primi antichi scrittori latini avanti a Vergilio, fa in più luoghi fede tal costume delle sorti esser'anco a loro trapassato, dicendo egli nella sua comedia Casina intitolata, in persona di Stalino vecchio: "Io farò in questa maniera: metterò le sorti ne la cestella et indi cavarolle per te, et per Calino". [11] Marco Tullio, appresso, scrivendo a Quinto suo fratello, pruova il medesimo con tai parole: "Disse il suo parere di voler per mezzo del Pretore della città eleggere i giudici per sorte"; et nelle sue Filippiche mostra ch'i magistrati e le provincie si davano a' cittadini in questa medesima /c. 5r/ maniera ancora. [12] Simili autori seguitando a' tempi nostri l'Ariosto, et Omero et Vergilio in questo specialmente, nella sua maggior'opera non fe' risolvere il suo Agramante, non potendo egli porre accordo niuno fra' primi guerrieri del suo campo, li quali volevano con l'armi terminar le lor liti, perché si dichiarasse più sicuramente chi di quelli dovessero esser'i primieri a combatter a duello insieme, che prendessero quattro brevi, ne' quali fossero scritti i nomi de' cavalieri accoppiati secondo le discordie et le differenze loro, et si mettessero all'arbitrio dell'instabil dea? [13] Ma che? la sagra et divina scrittura non ci rende pieno et sicuro testimonio dell'uso delle sorti in più et diversi luoghi, et per molte et varie cagioni ancora, et come elle con dritta ragione usar si possono? Il sagro proverbio in prima non dice egli: "La sorte acqueta le discordie"? Il che si vede aperto là intervenire dove in divider facoltà di beni et premii d'honore et in dar pene et castighi, non essendo per se medesimo suffitiente il parere et il giuditio degl'huomini, si ricorre all'arbitrio della sorte. [14] Saul non fu egli per mezzo della sorte eletto re? Et Iona non fu ancora per sorte gittato in mare? Et parimente in Ester non si ritruova che fu messa la sorte nell'urna per intender'in qual mese et in qual giorno dovesse il popul ebreo esser occiso? /c. 5v/ [15] Altri testimonii ancora, et di non minor credenza, per certo si sarian potuti produrre per provar l'uso et l'antichità delle sorti: ma da vantaggio per avventura mi stimo esser'i raccontati. [16] Le sorti poi appo gl'antichi furon chiamati ancora gl'oracoli, le sibille, le sacerdotesse de' loro dei et altri simili, o vero le risposte et le carte ov'erano le sorti contenute scritte. Et sortìlego, o vero predicitore et eleggitore per sorte venne detto ancora colui che dava altrui le sorti, et il luogo medesimamente dove quelle si rendevano. [17] Onde Oratio Flacco nella sua opera che scrive dell'arte del poeta chiamò con l'aggiunto di sortìlega l'isola di Delfo, per ragione d'Apollo che donava quivi le sorti et le risposte a' mortali. [18] Le quali sorti et risposte degl'oracoli et de le sibille non è da lasciar qui di dire ch'elle furon date ancora in versi, sì come, per mostrar la grandezza dello scriver poetando in quelli, testimonia il medesimo Oratio nel medesimo luogo con queste parole: "dicte per carmina sortes". Le quali nel nostro volgar suonano: "rendute in versi ancor furon le sorti". [19] Né solamente furon queste date a voce et in versi, ma riposte nelle foglie ancora, sì come largamente il mantuan poeta afferma nella sesta parte del suo maggior poema con le supplichevoli preghiere ch'il /c. 6r/ suo Enea porge a la Sibilla Cumana, dicendo: "Ben ti prego ch'in foglie oggi non scriva le risposte, che dar mi devi in versi". Et poco sopra havea fatto dire alla medesima sacerdotessa d'Apollo al medesimo Enea che egli dirizzerebbe in honor di lei ampissimi tempii insieme con eletti sacerdoti, dov'ella potesse poi dire alle genti le sue sorti et i suoi secreti et misteriosi fati. [20] Che le sorti ancora non sieno per lor natura malvagia cosa, né cattiva, sì come fu da noi promesso di mostrare, ce n'assicura non leggiermente il gran padre Santo Agostino, là dove dice che, sentito già mai da noi il nome delle sorti, non dobbiamo tosto ricorrere a cercarne il parer de' datori delle sorti, o di coloro che in qualunche modo facciano arte di predire altrui il futuro, essendo che la sorte per se medesima non habbia nulla di malvagio, né di reo, ma bene sia ella cosa che, là ove mai sta dubbiosa la mente humana, dia inditio della volontà divina, perciò che et gl'Apostoli proprii messer le sorti quando Giuda, doppo il tradimento al suo Signore, col laccio al collo terminò la sua vita, cercandosi per loro in luogo di quello chi ripor si dovesse, et scelti di loro a tal effetto due per human giuditio, fu de' due eletto uno per giuditio divino, sì che, prendendosi consiglio chi di essi rimaner vi dovesse, la sorte diede sopra Matthia. /c. 6v/ [21] Ma chi desiderasse ancora intender a pieno la virtù delle sorti et in quanti modi elle s'intendano et quanto a noi si convenga di riporle in uso, legga il trattato di San Tommasso, che non men dottamente che piamente delle sorti ha composto. [22] Vedutosi adunque da noi, benché quasi per passaggio, l'usanza delle sorti esser'antica et quelle appresso non ritener niente di male, resta homai solamente, per quanto ne fu promesso, che con ogni possibil prestezza si proceda avanti a trattar'alquanto delle Sorti Befane, che così ci piace di nominarle, le quali si veggono esser ogni giorno in molto usitato costume in diverse città et provincie. [23] Può apparire adunque non senza cagione che queste moderne Sorti ritengono ancora alquanto della natura dell'antiche, et di quelle maggiormente che dagli oracoli et dalle sibille si è mostrato essere stati in versi et in carta riposte, poscia che a simiglianza di quelle per diletto et honesto sollazzo sono poi state per noi introdotte in veglie et in trattenimenti di nobile et allegra brigata, perciò che per opera di dette Sorti, o Venture Befane, si fa intender'a ciascuno che v'intervenga, quasi per voce, o scrittura d'alcuno oracolo, o di profetico avvertimento, ciò che alla vita sua debba sopravenire. [24] Dove incontra /c. 7r/ ben le più volte che per quelle siano fatte saper le cose della passata vita d'alcuno, non altrimenti che non essendo elleno state mai gli debbano avvenire una volta, et siano ancora scoperte le fantasie et i pensieri, et come si suol dire gl'humori altrui, di cosa che stimi essergli tra l'altre più fissa nell'animo: sì che si può senza dubbio affermare che simil usanza introdotta fosse non meno certamente per utilità che per diletto de le persone, essendo per sì gentil modo rendute dalla Befana gratiosamente accorte le genti de' lor proprii corrigibili difetti et mancamenti, acciò che da indi innanzi, ammendandosene essi, se ne liberino; et sendo non meno ancora per quelle medesime con degna lode commendate l'altrui belle operationi et i virtuosi pensieri, acciò che vadano per l'avvenire in quelle lietamente continuando. [25] Là onde ben comprender si può quanto di piacere et di giovamento insieme debba portar'alli spiriti nobili e leggiadri il sentirsi con dolcezza raffrenar'o spronare da quello, od a quel corso al quale si trovino di già haver mossi i pensieri dell'animo loro, et ciò forse allora maggiormente avviene che queste nostre Venture con alcuna leggiadra et spiritosa inventione ordinate sono et messe ad effetto, imperò /c. 7v/ che vengono più stimate et sono tenute in maggior pregio le cose che in esse notate sono et avvertite sopra la vita, qualità, costumi et pensieri di qualunche persona si sentano . [26] Ma acciò che qualche lume si scuopra oltr'a la natura di queste Sorti Befane, già in parte da noi toccata, della forma ancora et dell'ordine, onde si possa per chi vuole assai agevolmente et distintamente procedere intorno a quelle, così quanto alla maniera del comporle, come ancora quanto alla guisa dell'introdurle et del rappresentarle, il che nel terzo luogo si disse di dover mostrare, è hora adunque, in quanto a la forma del compor tal Sorti, primieramente da sapere che così fatta maniera si può tutta considerare in uno di questi tre modi: perciò che elle a ordinare si vengono, o disporre, o di parole sole, o di cose sole, o vero di parole et di cose insieme. [27] Oltr'a ciò, s'elle si mandano ad effetto per mezzo di parole sole, queste o sono scritte in polize, o dette in voci, et in qualunche de' due detti modi o elle si scrivono et si dicono in lingua che da veruno hoggi naturalmente non si parla, ma da' nobili universalmente s'intende, sì come è la lingua latina, o vero in quella che per molti da natura si favella, /c. 8r/ qual è la nostra materna et quella delle nationi de' nostri tempi et alle nostre contrade più vicine, talché o simil lingua vive per le bocche de' populi della Toscana, o vero delli stranieri, come della Francia et della Spagna. [28] Oltr'a questo, in compor dette Venture vi si porge ancora quest'altra diversità: perciò che nelle parole scritte, o dette in voce, così della lingua di già morta nel comune parlare come in quelle scritte, o dette in queste che hoggi si parlano, quando motti et quando sentenze riporre, et hora proverbi, et hora versi vi si possono spiegare. [29] I versi poi tanto della toscana, quanto della franciosa et della spagn(u)ola lingua si posson legger'ancora, o che siano semplici, cioè sciolti da rima et senza compagnia d'altri versi, o ver con altri appresso, sì che rimino insieme, et anco questi più versi talhora saranno due versi soli rimati insieme, quali sono i due ultimi della stanza, o vero ottava rima, che chiusa son domandati, talhora tre, convenendo la rima del primo con quella del terzo verso, sì come son quelli del capitolo, o della catena che la vogliam chiamare. [30] Et talvolta ancora si vedranno quattro versi, rimando il primo col quarto, il secondo col terzo, o vero col terzo il primo et il secondo col quarto, nella guisa de' quadernarii da sonetti. [31] Ancora nelle medesime Venture tutte le medesime forme /c. 8v/ di versi posson esser o novellamente da chiunque sia composti et dettati, o ver da noto et celebre autore tolti in prestanza. Questi sarebbono Dante, il Petrarca et l'Ariosto, o s'altri fussero nella nostra, o nell'altrui sopradette lingue a questi simili et vicini, o veramente ancora che senza niuna differenza dell'un'o dell'altra sorte di rime mescolatamente si compongono. Ma ben si sente per prova che i versi et le rime levate da noti et nobili poeti riescono in ciò molto più felicemente che le composte di nuovo. [32] Ma quanto è stato detto intorno all'uso del verso e delle lingue et della guisa delle parole in quelle dettate, o scritte è riposto sempre nell'arbitrio et nell'ingegno dell'acuto autor della Befana, cioè del dover comporla più in uno di questi che in altro modo, secondo che a lui più aggrada, o secondo ancora che esso stima dover più agl'altri in quel tempo aggradare. [33] Di cose sole poi ordinar si possono somiglianti Venture, prendendo più et diverse maniere d'animali dipinti, o con parole descritti in carta, o vero molte et diverse sorti d'herbe et di fiori et di piante, o d'altre varie cose com'a ciascuno meglio piaccia, senza porvi però niuna parola appresso che sprima, o ver /c. 9r/ dichiari la natura, la proprietà, o qual si voglia altra qualità di quelle. [34] Di parole, ultimamente, et di cose appresso si potrebbon metter'insieme cotali Venture usando in quelle le predette, od altre cose accompagnate con parole scritte in qualunche lingua, o forma delle sopranominate che altrui più paresse, per le quali si dimostrasse con leggiadria in qualche parte la natura et la qualità speciale delle cose per ciò prese. [35] Alla forma di queste Venture posson servire molto bene tra l'altre quelle opere d'ingegno, le quali compongonsi (com'è ottimamente noto a coloro che vi ripongon qualche studio) di parole et di cose, in guisa che l'une non possano dirittamente star senza l'altre, et imprese son domandate: et di queste non ha molto tempo che per simile cagione furon portate dell'assai argute et avvistate da' chiarissimi spiriti Intronati. [36] Et la presente Ventura ancora de' Cortigiani Ferrai(u)oli entrarà forse non indegnamente, come vedrassi più di sotto, in così fatta schiera, infra le quali sorti di Venture dignissimamente, senz'alcun dubbio, havran sempre i lor luoghi quelle che di belli et leggiadri doni et di nobili et ricchi presenti saranno composte, et di versi et di rime insiememente ornate, sì come di tali fu l'ornatissima /c. 9v/ et ricchissima Ventura pochi anni addietro del Serenissimo Principe di Toscana posta insieme di tazze et di coppe d'argento, di catene, di medaglie, di frontali et d'anella d'oro et di pendenti adorni di pretiosissime gioie, dove erano i doni tutti accompagnati da una chiosa, ternario o quadernario, di leggiadre rime, et trahendosi da uno non men bello che ricco vaso d'oro il nome di signora o di signore, di dama et gentildonna, o di cavaliere et gentilhuomo che in quella dovesse ritrovarsi, si cavava da poi dall'altro vaso compagno da fronte la benefitiata del dono, la qual usciva insieme co' versi nella maniera già detta, et subitamente tai doni a cui erano toccati in sorte venivano portati. [37] Lo 'ntroducimento, o 'l rappresentamento di tali Venture Befane, benché le più volte si costumi di far per mezzo di polize semplicemente scritte in alcuna delle sopr'assegnate forme, le quali siano appresso tutte segnate, piegate et messe insieme dentro un'urna o vaso, tra loro confusamente mescolate et sottosopra rivoltate, niente di meno si possono ancora in altra maniera quelle introdurre, oltr'a varii modi che poco appresso si diranno intorno allo stile del far uscir le polize del vaso, col far talvolta trarlene fuora per le /c. 10r/ mane de' puri et gratiosi fanciullini o fanciulline, talvolta di novelle spose, o di leggiadre giovani donne che al trar della Ventura si trovino presenti: perciò che per lo più, se non sempremai, alla presenza di vezzose et accorte donne si fanno vedere et sentire sì fatte cose, mettendosi dagli elevati spiriti quelle insieme solamente (massimamente appresso noi, come si disse) per diletto et consolatione di simiglianti donne. [38] Questo fu sempre il principal intendimento degl'ingegnosissimi et virtuosissimi Accademici Intronati, fuori de' lor gravi studii et accademici essercitii, in mandare ad essecutione le lor piacevoli inventioni et giuochi di spirito, perciò che in simili occorrenze di Venture erano usati, ritrovandosi fra bel drappello di gentildonne, di riporre tutte le polize che lor pareva, et nella forma che più lor piaceva, dentro d'accomodata et bella coppa et spesse volte ancora nella lor Zucca da sale, et quella o questa portando oltr'a ciascuna delle quivi presenti donne, facevanle di propria mano prenderne in prima la ventura di lei, et poi quella di colui che a lei più piacesse. [39] Oltr'a ciò era da colei medesima chiamato alcuno de' circostanti che sponesse et interpretasse ciò che la Befana quella volta volesse a lei significare et di che cosa avvertirla con la sua presente poliza. La qual /c. 10v/ cosa appar manifesto per se medesima quanto fusse pronta cagione che s'udissero tuttavolta varie et belle interpretationi et nuovi et strani capricci in accomodar'i versi a proposito della natura et della qualità et de' pensieri di quelle donne a cui erano stati mandati in sorte, et insiememente quanto di piacere, d'utile et di contento di ciò si trahesse da tutti gl'ascoltanti, sì come per provar questo sarebbe più facile che breve cosa l'addurr'al presente essempi di molte spositioni fatte in diversi tempi nella nostra città da sottili et stravaganti ingegni in così fatte occasioni. [40] Simil costume di far'interpretar le polize scritte subitamente che tratte sono, sì come è bello veramente in sé et ingegnoso, così è stato da poi ricevuto et seguitato ancora da molti nobili intelletti in tutte l'altre maniere di simiglianti Sorti, o Venture. [41] Quanto al modo poi del porre le polize nel vaso, oltr'a quello hora narrato tenuto dagl'Intronati, si può usar questo stile così fatto: o che quelle si pongano in dui vasi, in uno de' quali siano tutti i versi scritti, nell'altro tutti i nomi degl'huomini et delle donne insieme, o vero in tre vasi ripongansi, uno de' quali tenga i versi, l'altro i nomi delle donne, et il terzo quelli degl'huomini, o veramente /c. 11r/ che tutte le polize s'acconcino in quattro vasi, uno de' quali quelle per le donne ritenga, un altro quelle per gl'huomini, et l'un degl'altri due serbi i nomi di questi et di quelle l'altro. Da così fatto uso, se si pon mente bene, uscirà poi sempre la cosa più ordinata et più distinta, et le sorti verranno ancora molto meglio appropriate alla natura et conditioni delle persone. [42] La detta Ventura ancora in questa medesima forma si può con diverse inventioni diversamente rappresentare: perciò che in alcun tempo è stata vestita la Befana in habito grave et magnifico, accompagnata da più sue ancille et ministre, tutte honestamente ornate et in aspetto gravi et antiche, con vasi di eccellente mistura et di sottilissimo lavoro in mano, dentrovi tutte le polize scritte della Ventura; la qual compagnia poi havendo al suo arrivo dolcemente in musica narrato l'esser loro et a che effetto fossero là comparsi, fecero appresso, appressandosi alle donne, trarre ad esse de' vasi le lor sorti proprie et quelle ancora d'alcun huomo a piacer loro. [43] In altro tempo da' nobilissimi et spiritosissimi giovani Academici Accesi furon figurate le Sibille, le quali dentro a bellissime frondi d'alloro et di palma, dove si afferma quelle esser state solite di dar'alle genti i consegli et le risposte loro, /c. 11v/ composte di seta verde con le parole intessutevi d'oro, portavano intorno a ciascuno quivi presente segnato in esse il suo responso et notato il suo fato, havendo elle primieramente cantando in musica dolcemente dato notitia dello stato loro et del lor venir'in simil luogo. [44] Si lascia al presente di dire come si possano anco mandare ad essecutione queste Venture col prender'un'opera di qualche famoso poeta, et quella a caso aprendo, correr subbito con l'occhio a' primi versi d'ambedue le facciate del libro, uno de' quali sia per la donna et l'altro per l'huomo, et attender quello che dicono et significono, et tutto accettar quella volta in luogo della lor ventura. [45] Né manco si farà hora alcuna parola di veruna di quelle Venture, o Sorti che stampate vanno per le mani di ciascuno, non solamente per esser quelle cosa molto comune et vulgare, ma molto più per essere state elle sbandite dalle nostre mani et da' nostri pensieri da coloro che meritamente sostengono il peso et la cura della salute dell'anime nostre. [46] Sono state fatte talhora delle dette Venture senza sorte niuna di polize scritte, ma solamente dando la ventura altrui a voce: et ciò fassi col bendare gl'occhi ad alcuno eletto et accorto ingegno et fargli porre il capo in grembo a qualche persona, /c. 12r/ huomo o donna, del cerchio con una delle mani voltata sopra le reni, il quale poi a chiunche vada a percuotergliela predice la sua sorte con verso, motto, o sentenza, secondo il gener del dire che più al bendato piaccia, o vero che più gli sia imposto quella volta. [47] Questo medesimo modo si potrebbe per avventura (come io avviso) esseguir molto meglio, o ver con più leggiadria almeno, eleggendo della brigata uno avvistato et pronto intelletto, et velatigli gl'occhi della fronte et datagli una verga in mano fargli rappresentar qualche indivinatore, o vero indivinatrice, quali sarebbono Tiresia tebano, o Manto sua figliuola, o d'altri di cui per scritture, o per fama s'havesse certa notitia essere stati nel numero di coloro ch'avessero annunciate, predette, o profetate le cose avenire, et da quel tale poi a qualunque huomo, o donna condottigli davanti fosse in uno delli sopr'accennati modi detto et raccontato il fato et la ventura sua. [48] Non poche altre ancora varie et diverse forme di simili Venture si potrebbono qui raccontare, et col pensiero diversi et nuovi modi per quelle immaginare et per non pochi luoghi a cotal materia atti et proprii andare al presente discorrendo. Ma perciò che di breve proemio che /c. 12v/ questo esser dee, un lungo trattato homai non divenisse, si dirà solamente hora che, come luogo comunissimo da trovar'acconcia materia et abbondantissimo fonte per attigner liquore di così fatte Venture, sono profetesse, sibille, sacerdotesse di dei, auguri, o aurispici, astrologhi, maghi, incantatori: et in brieve tutte quelle cose che della predittione, del profetico et della divinatione in sé ritengono per lor natura. [49] Et tutto il rimanente che intorno a così fatto soggetto et argumento si potesse di più hora dire, si rimetterà di buonissima voglia al saper de' bell'intelletti et alla cura de' pronti investigatori et solleciti di simil'opere ingegnose. Né s'anderà per altro modo ricercando ancora quando cotal sorte di Venture havesse la sua prima origine, né per qual cagione in questo giorno proprio dell'Epifania sia solito di trarle più di quello che sia per dover'investigarsi donde sia proceduto che in tal giorno ancora, o ver nella notte ch'a quello precede, si dica dalla gente del vulgo che tutte le sorti delle bestie hanno libera facoltà et ampio privilegio di poter favellare, o ver ancora perché nel medesimo dì solenne si faccia dalle femminelle la /c. 13r/ mostra su per le finestre delle figure d'huomini et donne d'ogni età di panni composti, di borra et di stoppa tutti pieni. [50] Ma verrassi homai finalmente a narrar con brevità quello che n'ha fatto in prima prender'a quest'hora in mano la penna, cioè a dar'alcuna notitia della forma c'havesse la Ventura de' Cortigiani Ferrai(u)oli et sopra qual materia ella fondata fosse. [51] Essendo adunque nella nostra patria di Siena (come di sopra fu detto) l'usanza del trar le Venture della Befana continuata ogn'anno, stabilita et quasi per irrevocabil legge servata, et questa usanza verso coloro principalmente risguardando che, per cagion di liete opere et virtuose sogliono ragunarsi con diletto insieme et voglion mostrar'ancora altrui d'haver l'animo impiegato al nobilmente seguir gentildonne, i gentilhuomini della predetta Corte, facendo professione a questa non dissimile, non vollero che nel primo anno della lor gioiosa et honorata congregatione in nessun conto per loro si lasciasse in dietro una simile consuetudine o più tosto da loro si cadesse in una così grave contumacia appresso le savie et gratiose madonne. [52] Là onde, quantunque ne' giorni vicinissimi alla solennità dell'Epifania per lor medesimi fatti accorti di dover pagar'in alcun modo così fatto debito, si trovas/c. 13v/sero in molte gravi cure involti et in molte et importanti opere occupati, per dover'indi a brevissimo spatio rappresentare allegre feste et honorati spassi pubblichi, sì come appresso fecero et nella maniera ancora che fecero, tuttavia per non tralasciar giamai cagione, né occasione niuna di mostrarsi ad ogni lor potere presti sempre et pronti ad ogni piacere, commodo et honor dell'amabili et cortesi gentildonne, deliberarono infra loro che tosto fosse apparecchiata una delle somiglianti Venture et nella sua consueta stagione messa ad effetto. [53] Onde da coloro a tal carico proposti, in brevissimo spatio di giorni, per non dir'hore, lor conceduto, fu stimato che non dovesse esser cosa del tutto indegna di simil tempo il far quella volta veder riverci di medaglie fatte in lode delle da tutti loro servite, amate et reverite nobili donne: talché, messi insieme buon numero di quelli leggiadramente in carta dipinti, co' lor motti et versi appresso scritti, furon presentati nella maniera che con poche parole hora si verrà manifestando. [54] Presupposto adunque in questo luogo, secondo il parere d'alcuni filosofi, seguitato ancora dal comun parere de' favolosi poeti, ch'il Fato regga, governi et signoreggi tutte le cose che sono, che furon mai /c.14r/ et che mai saranno, tanto sopra come ancora sotto il cielo, et che a lui sopposte sieno tutte l'altre quantunque altissime potestà, et d'ogni cosa finalmente sia universal autore, finsero l'autori della presente Ventura che detto Fato, riguardando nelle forme, o vero Idee di tutte le cose in cielo riposte, vedesse che la universal natura di già haveva da quei celesti esempi tolti i belli et leggiadri volti delle rarissime donne senesi di questa presente età et dimostrato a pieno in quelle quaggiù a noi quanto lassù veramente poteva. [55] Per che, entrando egli in consideratione che tali donne non havevan men chiare virtù rinchiuse dentro nell'animo che scoprissero di fuore splendenti bellezze nel corpo, et appresso quanto ad ogn'altro alto honore et vera et rara gloria andassero col cuor sempre aspirando, deliberò nel conseglio dell'altissima sua mente di voler mandar'in terra per mezzo delle Parche, sue antichissime ministre, sotto la scorta al presente della sorte Befana, pur una delle ministre sue, a così fatte gentildonne la figura di quelle cose onde ciascuna d'esse può et potrebbe, sempre che le s'offrisse degna cagione, mostrar chiaro il suo singolar valore et rendersi pienamente meritevole che fossero scolpite in marmo, in bronzo et in oro le sue /c. 14v/ nobili et egregie operationi. [56] Et ciò fece egli per opera di riverci di medaglie, acciò che si rendesse per ogni parte bello, compiuto et perfetto il luogo del ritratto, od immagine del bellissimo viso di quelle, sì che si potesse quivi in un tempo scorger colla lor bellezza, offerta agl'occhi della fronte, la beltà parimente indi a quelli dell'intelletto mandata. [57] Ma potrebbe qui non leggiermente forse alcuno prendersi maraviglia et non senza alcuna cagione dannare in qualche parte così fatta inventione per essersi altrui valuto in questo luogo dell'opera del Fato, presupponendo la natura di quello esser tale quale poco sopra è stata dichiarata: perciò che, attribuendosi ad esso ogni sorte di potere et di valore non solamente nel basso mondo, ma ancora nel supremo, si vede da ciò seguire che all'huomo sia negato et tolto ogni libero arbitrio dell'animo suo, ogni volontà et potestà insieme, cose veramente contra l'humana credenza in parte, et del tutto contra la nostra cattolica vera fede. [58] Perciò è da sapere che da chi pose avanti simil soggetto in qualche parte almen si sapeva qual sia la vera natura del detto Fato, et in qual maniera appresso sia tenuto et creduto dalle fedeli et cattoliche persone secondo il parere et la sentenza di Severino Boetio, /c. 15r/ hoggi da tutti per vera et buona ricevuta. Questa si è ch'il Fato sia una intrinseca dispositione intorno a tutte le cose mutabili, per lo cui mezzo la somma divina providenza co' proprii ordini lega et congiunge tutte queste cose. [59] Da' medesimi ancora in parte si sapeva che questa dispositione, onde tutte le cagioni inferiori con essentiale ordinatione sono alle superiori suggette, fu in prima, anzi, e sempremai, et si trova nella mente divina et che sì fatto ordine divina providenza è addimandato. [60] Et appresso a questo non era loro in tutto oscuro che la medesima dispositione, riposta poi nelle cagioni in cui apparisce simil ordine essentiale, per mezzo del quale, disponente la divina providenza, tutte le cose sono insieme collegate et sotto l'una l'altra ordinate, è poi per tal consideratione Fato nominata, et che ancora, veramente parlando, il Fato non si ritruova se non nelle cose che son prodotte dalla natura et non in quelle della volontà, né meno ancora in quelle che dall'arte son formate; [61] che il Fato non è in Dio, né manco è superiore ad esso Dio, sì come mentivano gli stoici et vaneggiavano i poeti, né manco impone il Fato necessità necessaria a veruna cosa, acciò che indi non nascano quelli indegni inconvenienti che /c. 15v/ dalla oggettione posta di sopra necessariamente seguirebbono. [62] A' quali inconvenienti per avventura non voltarono gl'occhi que' filosofi che ogni cosa di necessità riconoscevano dal Fato. Né ancora i poeti, da cui per lo più hanno tal opinione accettata et con le lor favole vanamente innestata. [63] Li quali poeti seguitando i Cortigiani Ferraiuoli al presente in questa materia, sì come pare che in tutte le altre ancora habbian seguito, le quali per honesto et ingegnoso diletto si trattano dalle brigate con poetico stile, è lor piaciuto di scherzar'alquanto sopra la natura del Fato, potendosi essi difendere sicuramente sotto il medesimo scudo di tutti coloro li quali a' tempi nostri ancora trattano le cose loro secondo l'opinioni, o più tosto fintioni degl'auttori de' gentili, o pagani. [64] Né perché si faccia qui mentione del Fato (acciò che sia tolta via ogni soverchia lunghezza) si reciteranno partitamente tutte l'oppinioni et le sentenze che da più et diverse sette di filosofi sieno state tenute et confermate intorno alla natura di quello, né quanto ciascuna di esse portasse con seco del vero, o del verisimile. [65] Ma tornando a ripigliare là dove s'era da noi lasciato il nostro parlare delle Parche et della Befana /c. 16r/ mandate co' riverci di medaglie dal Fato lor signore, è alquanto da mostrare come le Parche fossero prese dagl'antichi per ministre d'esso Fato e talhora per lo Fato stesso. Il che appar manifesto per quello che cotanto manifestamente è noto: cioè che la rocca e 'l fuso co' quali esse si dipengono prendonsi spessissime volte per significar'il Fato. Et sonnovi pieni i volumi de' poeti che per li stami, per li fusi et per la conocchia quello stesso et non altro ne danno ad intendere. [66] Che le Parche fossero ancora preposte a tal offitio del servir'al Fato fu da Platone ampiamente dichiarato nel XII libro della sua Republica, mostrando quelle esser tre: la prima delle quali tenga la rocca inconocchiata, la seconda poi fili et la terza al fine, con le forbici in mano alle fila della seconda accostata, hor tagli queste et hor recida quell'altre. [67] Che ancora il Fato sia a Giove superiore, ne fa certa fede una statua, la quale dicono gli scrittori essere stata appresso i popoli di Megara sopra la cui testa erano state poste le Parche et l'Hore insieme. Per questa cagione, dice Pausania: perciò che elle hanno potestà et signoria sopra Giove, et queste, le quali noi chiamiamo stagioni dell'anno, dispongono di noi secondo l'arbitrio loro. Eschine, /c. 16v/ ancora, famoso autore, afferma Giove proprio esser'al Fato inferiore et soggetto. Il medesimo ancora è da Erodoto approvato. [68] Con le narrate considerationi, adunque, furon le tre Parche introdotte a dar'effetto con la Befana a la presente Ventura, la quale in casa del gentilissimo messer Ascanio Borghesi Cortigiano Ferrai(u)olo, non senza piacere et contento di chi la vidde et l'udì, fu tratta a la presenza forse di vinticinque gentildonne, per ogni nobil conditione delle prime della città, state qui magnificamente convitate la sesta sera di Gennaio, dove poi che furon levate le tavole et le gentildonne hebbero preso dal bonissimo fuoco un poco di conforto, che sì come richiedeva la stagione del tempo nella sala ardeva, et danzatosi lietamente per chi volse alquanto spatio, fu dalle donne richiesto poi della Ventura, secondo il costume antico in simil notte, acciò che esse non venissero frodate allhora di quel tributo ch'era lor consuetamente dato l'anno in tal tempo da' belli et cortesi ingegni. [69] Onde senza molto indugio si vide comparire in prima nell'honorata sala la singolar Befana in habito ricco et quasi regale insieme con le tre Parche, et come guida et duce di esse andava lor forse un passo avanti, vestita d'una robba /c. 17r/ lunga fino a' piedi di velluto tanè fornita intorno di bellissime treccie d'oro. In capo havea una nobilissima chioma negra con straniero et leggiadro modo attrecciata, adorna tutta di fine et rare pietre pretiose; sopra 'l viso una maschera morella. In mano portava un ben formato vaso d'argento col piè, dentro il quale era una parte di riverci dipinti, quelli che per le donne erano destinati. [70] Seguitavano appresso (com'è detto) le tre Parche, fatali sorelle: la prima, detta Cloto, havea in dosso una veste di drappo di più et diversi colori, una corona di lucenti stelle in testa, una rocca assai grande di lino inconocchiata et l'ali sopr'a le spalle. In mano teneva un vaso di finissimo cristallo, dove erano i brevi vagamente disegnati et coloriti, scrittivi entro i nomi delle donne. [71] Appresso a questa al pari veniva l'altra Parca sorella, Lachesi nominata, ornata la vesta, che era di drappo turchino, tutta di vaghe stelle, dall'una delle cui mani pendevano fusi attaccati a molte fila di più colori, alcuno de qua' fusi mostrava di filo avvolto già pieno, altro ammezzato et altro ancora appena incominciato, mostrando ella in atto di voler'attorcere et avvolgere hor a questo, et hor a quello di porger la mano; haveva l'ali sopra gl'homeri sì come la prima et /c. 17v/ un nappo d'argento in mano, dentro a cui stavano i riverci per gl'huomini formati. [72] La terza poi, chiamata Atropo, mettendo la seconda in mezzo, era ornata di veste oscura et negra: vecchia d'età et fiera et horribil nell'aspetto, con l'ali sì come l'altre, la quale con taglienti forbici in una delle mani si stava in atto di recider'et di troncar le fila di quella che allato l'era, et nell'altra mano portava un altro vaso di cristallo, sì come la prima, dov'erano servati i nomi degl'huomini, nella medesima forma scritti che quelli delle donne. A piè di queste erano non pochi fusi qua et là in terra sparsi, qual con poco, qual con più, qual con molto stame di varii colori avvolti. [73] Non pare ancora di lasciar di dire in simil proposito essere state finte dagl'antichi autori queste tre dee per rappresentarne con detta lor figura la natura di tutto l'essere et stato di tutte quante le cose che sotto il cielo si ritruovano: delle quali proprio è in prima il nascerci, appresso a questo il crescere et finalmente poi il venir meno et perire. Onde la prima di quelle, il cui nome avvolgimento significa, col suo vestimento di varii colori ne dimostra l'origine et il nascimento tuttavia, et diverse cose /c. 18r/ che venir si veggono nel mondo; le fila, poi, et gli stami della seconda, che inducimento denota, mostra l'accrescimento maggiore, o minore che quelle facciano nell'esser loro. Le forbici, al fine, della terza et ultima Parca, che immutabilità è interpretata, dichiarane il nascimento et la destruttione et la morte di tutte quante le cose che quaggiù hanno mai vita. [74] Sono state prese anco talvolta queste tre donne a mostrar le tre maniere del tempo, cioè il presente, il passato et l'avvenire. Sono state chiamate Parche dalla voce latina parcere, che perdonare significa, perciò che non perdonin giamai a la vita di veruno che ci nasca. Le stelle, oltr'a queste cose, poste in capo a Cloto et sparse per la veste di Lachesi, denotano il Fato, il quale per la stella fu da' sacerdoti d'Egitto significato, et la vulgata opinione ancora de' gentili dottori prova il medesimo: la quale era che la disposition del Fato consistesse et procedesse dalle stelle. [75] Le tre Parche medesimamente, secondo Platone, altro non vogliono inferire che il tardo movimento in prima del cielo di Saturno, per lo quale tutte le cose particulari si maturano, et la moltitudine appresso delle virtù che si ritruovano nel fermamento, o vero cielo stellato, /c. 18v/ donde tanta varietà di cose si generano in queste parti inferiori, et il numero di tutto quello ancora de' sette pianeti, per opera de' quali ciascuna cosa nella sua stagione perviene al suo maturamento. Dalle varie congiuntioni et diversi aspetti di pianeti, ancora, è stato detto proceder quello spesso cambiamento dell'humane cose il quale molti Fato addimandano. [76] L'ali, ancora, sopra le spalle di esse (per non lassar'intatta alcuna cosa dell'habito et della figura loro) ne danno agevolmente ad intendere la prestezza, anzi la velocità del corso delle cose mortali. Il lino ultimamente fu preso da' poeti in significamento del Fato, dicono, perciò che il lino è parto et frutto della terra, sì come sono anco i mortali, il qual rotto et troncato ne vuol far vedere che l'huomo venuto di terra dee ancora nella terra ritornare. [77] Venuti adunque i quattro ministri fatali nella forma et maniera narrata davanti al cospetto delle dette bellissime gentildonne, che loro attentissimamente vi guardavano, et fermatisi alquanto, con dolcissime voci et ottimamente unite cantarono in musica le qui sottoscritte parole: /c. 19r/ [78] Donne più che mortali, amate et belle, di virtù sol cagione, colui a cui le stelle cedono, et legge a Giove stesso impone, eterno, immobil Fato, ha la saggia Befana a voi mandato con le di lui ministre Parche antiche al lungo viver vostro ogn'hor amiche. [79] Per che le forme tra l'Idee più chiare ch'impresse in paradiso, veggendo al mondo care nel ritratto del vostro amato viso, et voi ad honor preste, nel senato ordinò grave celeste che d'altra parte scopra la medaglia quanto di voi fra l'altre il pregio vaglia. [80] Ond'hora in bronzo e in or le vostre historie scolpite e i chiari fregi manda per vostre glorie, /c. 19v/ come d'illustri donne et d'alti regi, perché poi resti eterna vostra beltà di fuor con quella interna, et l'una et l'altra fia resa più chiara per Corte a Marte et ad Apollo cara. [81] Quest'amanti ch'intorno hora a voi stanno pendon sì da' vostr'occhi, che nessuna cura hanno di ciò che lor per fato, o sorte tocchi: son solo i lor trofei far voi men dure e illustri i lor homei; e del trovarvi sol benigne, o dure pruovano i fati lor, le lor venture. [82] Né perché detto habbiam ventura o sorte, altri ch'un Fato regna, e da lui vita e morte viene, et ogni opra fra voi cara e degna; et s'altra cosa regge, di lui sol obbedisce all'alta legge, lo qual benigno e largo hora a voi porge quel ch'in mill'altri a gran pena si scorge. [83] /c. 20r/ Fornito il dolce et gratioso cantar della Befana et delle Parche, si destò maggiormente nelle donne et nell'altra nobile brigata ch'erano stati ad ascoltare, la volontà e 'l desiderio di vedere quanto prima et d'intendere più particolarmente le cose che qui fossero state da essi portate quella sera; et divisesi le messaggiere del Fato in due parti, secondo che in due parti della sala erano poste a seder le gentildonne, non per ciò troppo l'una dall'altra distanti. Aandarono dalla destra banda quelle che portavano i riverci et i nomi delle donne, dalla sinistra quelle che i riverci havevano et i nomi degl'huomini; dove posati inchinevolmente i lor vasi davanti a due delle più giovani donne che vi fussero per ciascun lato, incominciarono a far di man propria trarre indi ad una di quelle il breve in prima del nome d'una gentildonna, et all'altre appresso il rivercio che alla medesima donna era mandato dal Fato. [84] Et l'uno et l'altro tratti, erano insieme subbito portati ad uno accorto et intendente giovine della Corte, stante ivi da parte per tal offitio in piedi, dal qual tosto et aggratiatamente con voce da esser intesa da tutti i circostanti, detti in prima i nomi posti ne' brevi, erano poi /c. 20v/ spiegate le figure de' riverci, et lette le parole intorno a quelli scritte. Il medesimo similmente da un altro desto e pronto Cortigiano era fatto dall'altra parte, dove si trahevano i nomi et i riverci degl'huomini. [85] Tratti adunque tutti i riverci et veduti non senza gran diletto et mirabil'attentione di ciascuno, sì per le molte et vaghe figure vagamente disegnate et dipinte, sì molto più ancora per li belli et acuti sentimenti dentro a quelli riposti, la Befana et le Parche non con picciola lor sodisfattione tolsero humilmente commiato dalle gentildonne, et della sala si partirono; dalle quali donne poi consumossi alquanto di tempo in riguardar ciascuna la sua propria medaglia et in mostrarla appresso alla compagna che le sedeva accanto, mirando insieme l'una quella dell'altra, et insieme ragionando et discorrendo di quello che alquanto al dentro tenessero in sé riposto tali figure et parole: onde si scorgeva perciò in esse non leggier desiderio d'udir'un poco sopra tali inventioni il parer d'alcun gentile et elevato spirito. [86] Hora il maestro del giuoco, stato creato allhora acciò che si consumasse allegramente l'altra parte del tempo /c. 21r/ di quella notte, fatto per se medesimo benissimo accorto della volontà delle donne, con acconcie parole propose prestamente che quella volta non voleva ch'il suo giuoco fosse fondato sopr'ad altra materia che quella del dover'intendere qual fosse stata la vera intentione del Fato intorno a ciascun rivercio mandato ivi alle presenti virtuosissime donne. [87] Et dopo questo rivoltatosi a quella che più gli parve, le impose che si dovesse elegger due de' quivi circostanti giovani, comandando loro che dovessero interpretare ciò che significar volesse il dono quella sera a lei destinato dal cielo. Et appresso, secondo che ciascuno di quelli si portasse nell'aprir tali sentimenti, il Giudice del giuoco (di già preposto ad udire sì fatte interpretationi) dovesse determinar per quelli il premio, o la pena secondo i meriti loro. [88] Là onde fatto questo medesimo per tutte le gentildonne che là si trovavano, sì come tal giuoco con somma contentezza di ciascuno hebbe il suo principio, così ancora con somma sodisfatione di tutti venne alla sua fine per le nuove, belle et proprie spositioni che da' leggiadri et acuti spiriti furon'oltre portate et con pienissima attentione tutte ascoltate. [89] I riverci /c. 21v/ ch'usciron quella sera, di quelli che si son potuti poi ritrovare, saranno qui appresso nella medesima forma che uscirono dipinti, et secondo l'ordine ancora che prima et poi furon tratti et con questo o con quell'altro insieme accompagnati. /c. 22r/ I Riverci delle Medaglie I. [90] Per madonna Flavia Bellanti. Minerva armata, che nella sinistra mano tien lo scudo col volto di Medusa, nella destra l'hasta et un dragone a' piedi. Il motto: Saggio custode, et forte «MDRV»[tav. 000]. /c. 23r/ II. [91] Per lo Serenissimo Gran Duca di Toscana. Una donna posta a man destra, vestita tutta di drappo bianco, con ali sopra gl'homeri, con ghirlanda di lauro in testa et un ramoscello di palma in mano, posata col destro piede sopra un dado, corpo quadrato. Da man sinistra un'altra donna sopra una palla con una vela alta gonfiata, le quali amendue tengono con una mano sospesa in alto una corona reale. Il motto: D'una il voler dell'altra al valor giunto «MDRV»[tav. 000]. /c. 23v/ III. [92] Per madonna Artemisia Bardi. Il superbo et mirabil sepolcro del re Mausolo. Il motto: Di pietà vero essempio et meraviglia. IIII. [93] Per messer Flavio Figliucci, Cortigiano Ferraiolo. Il tizzone acceso del re Meleagro. Il motto: La vita ardendo insieme corre al fine. V. [94] Per madonna Eusta Petrucci. Strali, archi, faretre et faci, rotti, spezzati et spente. Il motto: Armi d'Amore. VI. [95] Per messer Attilio Marsilii, Cortigiano Ferraiuolo. Un altare, postavi sopra la statua d'un giovane senza barba che ne la mano dritta tien uno scettro, nella manca un'asta; in capo la celata con le penne, li stivaletti in gamba, et sotto i piedi una tartuca. Il motto: Più de la vita caro. /c. 24r/ VII. [96] Per madonna Faustina Venturi. Un giovane senza barba, con la corona di rose et di persa in capo, col giogo in una mano, nell'altra un velo giallo, vestito d'habito verde sopra et sotto rosso, et Amore che stanno con le mani congiunti insieme. Il motto: Con giusto et santo nodo insieme aggiunti. VIII. [97] Per il Signor Cavalier Elio Bolgarini. Una mano col dito della fede disteso dentro ad uno anello d'oro con una pietra di diamante in punta, et gl'altri diti piegati, coperta d'un velo. Il motto: In un coperta et salda. VIIII. [98] Per la Signora Contessa Cinthia d'Elci. Cupido ferito co' suoi proprii strali. Il motto: Dell'armi stesse mie provo le piaghe. X. [99] Per lo Serenissimo Principe di Toscana. Un huomo sopra l'aquila, che con la man dritta tiene un folgore, con l'altra /c. 24v/ una palla rossa. Il motto: Con alta providenza et tempra et regge. XI. [100] Per madonna Portia Brogioni. Il tempio d'Amore con le sue insegne. Il motto: Ognun prieghi vi porge, incensi et voti. XII. [101] Per messer Girolamo di Camillo Petrucci. Un giovane a cui son divorate le viscere da rapace augello. Il motto: Nuova esca ogn'hora a cruda, ingorda brama. XIII. [102] Per madonna Aurelia Falconetti. Una donna con il giglio in mano. Il motto: Speranza ne lusinga et riconforta. XIIII. [103] Per messer Girolamo Palmieri, Cortigiano Ferrai(u)olo. Una mano in atto di giurare sopra un ferro rovito. Il motto: Di certa et chiara fé sicura prova. /c. 25r/ XV. [104] Per una nobilissima vedova. Una colomba negra. Il motto: Del caro estinto bene a cor la doglia. XVI. [105] Per messer Oratio Azzoni, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un pesce marino nell'onde che si carica di pietruzze et d'arena. Il motto: Le future tempeste accorto vedo. XVII. [106] Per la Serenissima Principessa di Toscana. Una donna sedente in maestà con scettro et corona regale et con i pavoni a' piedi. Il motto: In tanta altezza humile. XVIII. [107] Per messer Antonio Borghesi. Un huomo con le braccia dietro alle reni, posto a seder sopra una pelle di bue distesa in terra. Il motto: Mercé chiedendo aspetta. /c. 25v/ XIX. [108] Per madonna Cinthia Paccinelli. Una donna con le ninfe che perseguita co' dardi un fanciullo alato con l'arco in mano. Il motto: Chi tutti vince al fin vinto si fugge. XX. [109] Per messer Emilio Pannilini. Un huomo sopra un cavallo alato volante verso il cielo et un mostro sotto a' piedi. Il motto: Spenti i gravosi affetti. XXI. [110] Per madonna Oritia Tegliacci. Il drago che guarda un arboro co' pomi d'oro. Il motto: Conforme guardia a sì pregiati frutti. XXII. [111] Per messer Giovan Battista Placidi. Due mani che si lavano sopra un vaso. Il motto: Vera innocenza et chiara. /c. 26r/ XXIII. [112] Per madonna Portia Cosci. Un fanciullo bendato divenuto cieco in riguardando il sole. Il motto: Da maggior luce vinto. XXIIII. [113] Per messer Belisario Bolgarini. Un huomo legato le braccia et i piedi sopr'una ruota. Il motto: Immobil pur nel lungo moto et grieve. XXV. [114] Per madonna Urania Piccolomini. Un giovine con un ferraiolo rosso avvolto et posto sopra la spalla accompagnato da più altri giovani, tutti co' ferraiuoli di varii colori nel medesimo atto. Il motto: Di rara Corte illustre et bel principio. XXVI. [115] Per l'Illustrissimo et Eccellentissimo Signor Paolo Giordano Orsino Duca di Bracciano, protettor de' Cortigiani Ferraiuoli. Un huom armato da man destra et una bella giovane da sinistra, che lietamente si tengono per mano. il motto: Fin da' primi anni amici. /c. 26v/ XXVII. [116] Per madonna Portia Buoninsegni. Una donna che si mette i carboni accesi in bocca. Il motto: D'amor, di fede et di fortezza essempio. XXVIII. [117] Per lo Signor Carlo Fiammengo, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un huomo con una verga in mano appresso un serpe. Il motto: Cerca una vipra humiliar cantando. XXIX. [118] Per madonna Emilia Gucci. Un'ara o ver altare. Il motto: Fermo rifugio sacro. XXX. [119] Per messer Alessandro Vannocci. Una donna in habito di ninfa appresso ad un antro, o ver grotta. Il motto: Al tristo sempre, al lieto suon rispondo. XXXI. [120] Per madonna Aurelia Tolomei. Una donna armata. Il motto: In petto femminile alta virtude. /c. 27r/ XXXII. [121] Per messer Giovan Benedetto Buoninsegni, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un garzone che, destrutte le penne da' raggi del sole, cade in mare. Il motto: Illustre vien l'ardore. XXXIII. [122] Per madonna Flavia Cerretani. Cupido con lacci, strali et facelle in mano, guida di Venere et delle tre Gratie, con paniere in mano, davanti ad una ragunata di nobilissime donne sedenti, in atto di reverenza verso quelle. Il motto: Liete cediam de' nostri pregi il vanto. XXXIIII. [123] Per messer Ascanio Borghesi, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un cane risguardante una testa di morto. Il motto: Fin a la morte. XXXV. [124] Per l'Illustrissima et Eccellentissima Signora Donna Isabella Medici Orsina Duchessa di Bracciano. Pallade armata che tien per mano Cupido. Il motto: Amor gentile et saggio. /c. 27v/ XXXVI. [125] Per messer Clemente Piccolomini, Principe meritissimo de' Cortigiani Ferraiuoli. Un huomo posto sopra le fiamme in un monte. Il motto: Da terra al ciel n'innalza un sì bel foco. XXXVII. [126] Per madonna Felice Finetti. Un'ara sopravi la Fortuna. Il motto: Fortune reduci. XXXVIII. [127] Per messer Emilio Azzoni, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un giovine che s'affanna di spingere un grave sasso verso la cima d'un monte. Il motto: Pur sempre a quel di pria. XXXIX. [128] Per madonna Flaminia Carli. Una colonna di marmo. Il motto: Costante et saldo. XL. [129] Per il Signor Cavalier Mutio Piccolomini. /c. 28r/ Un huomo mezzo nudo che sta nell'acque, appoggiato col petto sopra una tartuca marina, et sopra lui il sole. Il motto: Contra l'onde nemiche unico schermo. XLI. [130] Per madonna Francesca Sozzini. Un huomo in habito lungo che lancia un'hasta, accompagnato da tre fanciullini. Il motto: D'amore a giusta, alta battaglia sfido. XLII. [131] Per messer Curtio Guglielmi, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un huomo posto in mezzo a' pomi et all'acque. Il motto: Povero nella ricca, amata copia. XLIII. [132] Per madonna Vittoria Guglielmi. Un huomo vecchio et antico, con grandi ali di varii colori sopra le spalle et un oriolo in mano, accompagnato da 3 fanciulle, et un huomo vestito alquanto alla rustica con canestre et cornucopie in mano dinanzi ad un drappello di gentildonne in atto humile verso quelle. Il motto: A maggior forze le sue forze inchina. /c. 28v/ XLIIII. [133] Per l'Illustrissimo Signor Don Luigi di Toledo. Mercurio allato a Cupido. Il motto: D'amorosa facondia invitta forza. XLV. [134] Per la Poliza bianca. Un scettro intorno a cui è avvolto un ramoscello di quercia. Il motto: Altrui sol per giovare. XLVI. [135] Per messer Pandolfo d'Augustino Petrucci. Una donna legata ad uno scoglio et un giovane armato con lo scudo di Medusa in braccio et nella destra la scimitarra, con l'ali et il cappello, o celata, et un mostruoso pesce morto in mare quivi presente. Il motto: De' mostri domator prigion mi rendo. XLVII. [136] Per madonna Caterina Azzolini. Una donna che da man destra tiene il sole, dall'altra la luna. Il motto: Eterni lumi et chiari. /c. 29r/ XXXXVIII. [137] Per il Signor Capitano Leone. Cupido con un pesce velato dall'una mano, et dall'altra l'arco. Il motto: Ignudo fuor, dentro coperto ogn'hora. XLVIIII. [138] Per madonna Aurora Mandoli. Una giovane in grembo d'una matrona donde più giovani vengono per forza a levarla. Il motto: Vergogna contr'a forza non ha loco. L. [139] Per il Signor Conte Carlo d'Elci, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un fanciullo che spira col suo fiato verso un cigno. Il motto: Più lieto canto assai dolce aura muove. LI. [140] Per madonna Fulvia Sergardi. Una donna dipinta la veste a bocche, lingue, a penne, con la tromba in mano et l'ali bianche sopra le spalle. Il motto: Spiego con bianche piume il volo al cielo. /c. 29v/ LII. [141] Per messer Cesare Foresi, Cortigiano Ferrai(u)olo. Una donna con iscudo in braccio et dardo nell'altra mano, coronata di palma et d'olivo, et un fanciullo alato et bendato con arco teso in atto di combattimento. Il motto: In giovenil pensiero alto contrasto. LIII. [142] Per madonna Orintia Piccolomini. Un giovane davanti a tre dee, che ad una di quelle dona un pomo d'oro. D'ogni eccellenza il chiaro pregio invola. LIIII. [143] Per il Signor Cavalier de' Martini. La pelle del leone et della volpe appicate nelle loro estremità insieme. Il motto: Là dove manca l'un l'altro supplisce. LV. [144] Per madonna Livia Foresi. Un'asta et un dirizza crine. Il motto: In bel cuor femminile alto valore. /c. 30r/ LVI. [145] Per messer Aniballe Borghesi, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un giovane che giura nelle mani d'Amore. Il motto: A nuovo principe giurato. LVII. [146] Per madonna Volunnia Loli. Un huomo che d'alto et eminente luogo sta mirando l'abbruciamento d'una città. Il motto: Del fuoco da me acceso e godo e rido. LVIII. [147] Per messer Alessandro Fantoni, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un monte dalla cui sommità escono grandissime fiamme, circondato a' piedi da un grandissimo fiume. Il motto: Né secca l'un, né giamai l'altro smorza. LIX. [148] Per madonna Livia Carli. Due mani aperte. Il motto: Pronte mai sempre all'honorate imprese. /c. 30v/ LX. [149] Per l'Illustrissimo Signor Federico de' Conti di Montauto, dignissimo Governatore. Un huomo sopra un letto, con un braccio sospeso fuor di quello, che tiene in mano una palla d'argento sopra un baccino d'ottone. Il motto: D'opere eccelse, alte, svegliate cure. LXI. [150] Per madonna Casandra Arrighetti. Una corona di gramigna. Il motto: Dall'assedio d'amor fatta sicura. LXII. [151] Per messer Pompilio Foresi, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un giovane sopra il carro del Sole, che scorrendo pel cielo trabocca a terra. Il motto: La vita verrà men, ma non l'ardire. LXIII. [152] Per madonna Berenice Bardi. Una donna sopra una testuggine. Il motto: Grave beltà riposta. /c. 31r/ LXIIII. [153] Per messer Emilio Carli, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un huomo che trahe fuor d'uno speco un cane con due teste. Il motto: Doma gl'empii d'amor desir rubelli. LXV. [154] Per madonna Aurelia Borghesi Bolgarini. Tre dei a sedere, appoggiati le gombita sopra le ginocchia. Il motto: Al nobil parto dei propitii et cari. LXVI. [155] Per messer Laurentio Griffoli. Una donna con un mazzo di rose con le spine in una mano, in atto di sceglierle con l'altra. Il motto: Del soave dall'aspro ottima scelta. LXVII. [156] Per madonna Fausta Nuti. La Fama, scorta delle Ninfe de' sette Chori con varie canestre et cestelle in mano, in habito tutto conforme alle deità loro, al cospetto di bellissime et nobilissime donne sedenti, in atto chino et riverente verso quelle. Il motto: Per mirare et ammirar beltà sì rara. /c. 31v/ LXVIII. [157] Per messer Torquato Colombini, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un fanciullo con ali et armato di saette sopra un carro tirato dalle tigri. Il motto: Cede fierezza all'aspro giogo et grieve. LXIX. [158] Per madonna Verginia Petrucci Spannocchi. Una donna sopr'un carro, intorno al quale è Giove con l'aquila; appresso un satiro con un leone et Plutone con Cerbero. Il motto: In ciel trionfa, in terra et nell'inferno. LXX. [159] Per messer Antonio Savini, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un vaso pien di sangue, dentro a cui sono due aste. Il motto: D'un amico voler sagrato patto. LXXXI. [160] Per la Signora Contessa Urania. Una sfera materiale del cielo co' segni del Zodiaco. Il motto: Vera forma del cielo. /c. 32r/ LXXII. [161] Per l'Illustrissimo et Reverendissimo Cardinal de' Medici. Un pastorale, un turribile et sopr'a questi una mitria papale. Il motto: Aspira ogn'hora al glorioso regno. LXXIII. [162] Per madonna Artemisia Santi. Cupido con la benda degl'occhi in mano che guida per mano un giovane. Il motto: Per alto, erto sentier ne guida e regge. LXXIIII. [163] Per il Signor Cavalier Brogioni, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un giovane in ginocchioni con le braccia aperte. Il motto: Così nel cuor, come negl'occhi humile. LXXV. [164] Per madonna Cornelia Paccinelli. Una statua sopra un piedestallo, la qual tiene in mano un caduceo, et sopra la base è scritto COR. MAT. GRACH. Il motto: Di statua eterna a raro honor degnata. /c. 32v/ LXXVI. [165] Per Scipion Bargagli, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un cappello. Il motto: L'amata libertà perder'apprezza. LXXVII. [166] Per madonna Honorata Mignanelli. Un tempio. Il motto: Pudiciti' dicatum. LXXVIII. [167] Per messer Fausto Sozzini, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un huomo che al suon della lira edifica le mura d'una città. Il motto: Col dolce canto ogni durezza smuove. LXXIX. [168] Per madonna Pompilia Guglielmi. Un dragone che sta appresso una cassa. Il motto: Di pretioso tesor degno custode. LXXX. [169] Per messer Bartolomeo Fantozzo, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un giovane in mezzo alla Virtù et a Cupido, guidato da questi /c. 33r/ ad un tempio. Il motto: Scorte uguali d'Honore al vero tempio. LXXXI. [170] Per madonna Cinthia Lucarini. Un fanciullo alato et bendato con un ramoscello di palma nella destra mano. Il motto: D'honesto amore honesto segno et chiaro. LXXXII. [171] Per messer Pier Maria Luti, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un fanciullino nella culla che con le mani strangola un serpente. Il motto: Di virtute immortal alto presagio. LXXXIII. [172] Per madonna Andromeda Petrucci. Una donna armata con una corona d'olivo in mano et una collana di diamanti et di topatii al collo. Il motto: Sicura, honesta pace. /c. 33v/ LXXXIIII. [173] Per messer Fausto Bellanti, Cortigiano Ferrai(u)olo. Tre fanciulle che al fonte, prendendo l'acqua co' crivelli, la versano. Il motto: Di sì lunghe fatighe opre sì vane. LXXXV. [174] Per madonna Livia Piccolomini. Un paio di tortorelle. Il motto: Per casta fede et rara. LXXXVI. [175] Per messer Girolamo Cerretani, Cortigiano Ferrai(u)olo. Un huomo con una mazza che colpisce sopra un'idra di più teste. Il motto: Per li spenti d'amor disdegni et ire. LXXXVII. [176] Per madonna Agnesa Cerretani. Uno scudo bianco et puro. Il motto: Fian qual in marmo le chiar'opre scritte. LXXXVIII. [177] Per messer Oratio Borghesi, Cortigiano Ferrai(u)olo. /c. 34r/ Un fanciullo alato et con arco in mano accanto ad una donna con la vela et col corno di dovitia. Il motto: Et in amore ha sua ragion Fortuna. LXXXIX. [178] Per madonna Laodomia Colombini. Una serpe et una colomba a paro. Il motto: Rara coppia. LXXXX. [179] Per lo Serenissimo Signor Don Petro de' Medici. Un giovanetto col tridente in mano sopra una conca di mare in mezzo l'acque, tirata da quattro cavalli marini. Il motto: Gran re novel dell'alte acque tirrene. LXXXXI. [180] Per madonna Laura Tondi. Una mela cotogna. Il motto: A dolce, honesto amor gioconda alletta. LXXXXII. [181] Per messer Andrea Bartolucci. /c. 34v/ Un huomo diritto in piedi con un anello di ferro in dito, vicino alla rupe d'un monte donde si vede pendere una longa catena di ferro. Il motto: Del raro don grata memoria eterna. LXXXXIII. [182] Per madonna [...] Una donna in apparenza et in atto di prudente et modesta, che leva la benda dagl'occhi d'Amore. Il motto: Tolgo del il grave oscuro velo. LXXXXIIII. [183] Per messer Giulio d'Ambrogio Spannocchi, Cortigiano Ferrai(u)olo. Due giovani sopra due cavalli bianchi con cappelli in testa, et sopra ciascuno una stella. Il motto: Di graditi destrieri alto desio. /c. 35r/ Proemio alle dichiarationi de' riverci de' Cortigiani Ferraiuoli [184] Avanti che da noi si proceda più oltre a quelle dichiarationi, ancora che brevissime, le quali n'è paruto assai convenevole di dover porre intorno a ciaschedun rivercio di queste medaglie de' Cortigiani Ferraiuoli per manifestamento d'alcune cose più oscure che per avventura potessero per qualunque cagione in quelli trovarsi, n'è paruto ancora ragionevol cosa di mostrar brevemente in prima che cosa fossero le medaglie appo gl'antichi et per cagione di quali persone essi costumassero di batterle et qual fusse il lor fine principale intorno a quelle. [185] Et questo fie acciò che meglio poi comprender si possa quanto convenevolmente et propriamente si siano potute ordinare, o finger medaglie da' detti Cortigiani in occasione simile a questa loro della Ventura Befana, et appresso acciò che s'intenda sopra qual concetto principalmente fondassero il pensiero et l'intendimento loro et si renda insieme conto d'alcune particolarità intorno a tali riverci, delle quali potesse agevolmente /c. 35v/ da qualche ingegnoso spirito esser talvolta ricercato alcuna cosa. [186] Erano adunque quelle che da noi sono hoggi medaglie chiamate, battute, o scolpite dagl'antichi, per quelle che non in poco numero, né di rado ci pervengono alle mani, in varie sorti di belli et preciosi metalli di rame, di bronzo, o di metallo Corinthio (questo dicono gli autori esser'un mescolamento di più et varie sorti di nobilissimi metalli insieme congelati doppo alcuni gravissimi incendii che destrussero infinito numero di ricchissime statue nella città di Corintho) et d'argento et d'oro in varie forme stozzate et con sottilissimi lavori disegnate. [187] Queste si crede assai fermamente che da' loro inventori fossero addimandate numismata, poscia che non pare che per le scritture rimasteci degl'antichi si truovi sparsa voce alcuna che fosse di esse riconosciuta sola et propria; et elle ancora sono cotanto simili (come si vede) alle monete, che nummi erano dette dagl'antichi et nella materia et nella forma rotonda et nella maniera dello stozzo con cui le medesime erano formate. [188] Sono state poi da' nostri dette medaglie, sì come riferisce il diligentissimo et intendentissimo messer Sebastiano Erizzo nella sua bell'opera delle medaglie antiche, per vocabolo corrotto, /c. 36r/ o vero per la lettera T mutata in D per più dolce suono, quasi metaglie, o, più tosto derivando simil voce di medaglie dal verbo greco «MDRV»....., che imperare significa, quasi imperatorie, perciò che la più parte di quelle che medaglie si deono chiamare sono con l'effigie improntata d'imperadori, o per quante altre derivationi sia stato formato tal nome, sì come può ciascuno che ciò desideri sapere assai pienamente intendere appresso il medesimo Erizzo, nel copioso proemio ch'egli distende sopra tutta questa materia. [189] Tali medaglie, adunque, di diversi metalli havevano, come si vede, da una parte scolpita dal naturale l'immagine di colui, o di colei per honore et memoria di cui fosse ciascuna battuta, dall'altra parte v'erano posti certi segni, o note et figure, o immagini di persone, o di cose denotanti attioni alte et magnifiche da que' tali operate, o vero rappresentanti le egregie et singolari virtù dell'animo loro, sì che in un medesimo luogo si scorgeva il vero ritratto del corpo con quello appresso dell'animo delle persone degne et meritevoli d'honore et di chiara fama. [190] Et queste impronte erano tanto di privati, quanto di gran capitani, di consoli et molto più d'impera(t)ori et d'imperatrici. Così fatto segno speciale veniva conceduto altrui dal Senato et Popol /c. 36v/ di Roma, quando vi fioriva quel famoso imperio, in luogo di pregiatissimo honore et di soprana gloria, sì come appar manifesto quasi per marco, o sigillo dalle due lettere nelle medaglie segnate S. C., Senatus Consultum, cioè per determination del Senato, et in altre ancora il medesimo si rafferma per le lettere così scritte N. C. A. P. R. cioè Nobis Concessum A Populo Romano. [191] In manifestamento poi delle medaglie antiche più in generale si lasciarà al presente di dire come dalle città della Grecia et dell'Asia ancora ne fussero battute delle bellissime per honorare gl'imperadori romani lor signori et in testimonianza della divotion loro verso quegli et per rendersegli ancora quanto potevano il più sempre gratiosi et benevoli. [192] Né si terrà da noi alcun ragionamento ancora, per non entrar in lunghezze dal nostro principal proposito alquanto lontane, in narrar distintamente che le cose onde usavan gl'antichi di servar memoria nelle lor medaglie erano tutte l'egregie et magnifiche loro operationi per mare et per terra manifestate, gl'acquisti delle provincie, l'edificationi delle città, delle rocche, de' ponti, de' tempii et d'altri simiglianti opere, o vero la memoria de' consolati, de' giuochi et degli spettacoli fatti celebrare per gl'ampii teatri di /c. 37r/ Roma, i donativi fatti da' principi al popolo et i parlamenti fatti da' capitani agl'eserciti, gl'oracoli, i pronostichi dell'avvenire, le costellationi et altre cose di sì fatta maniera. [193] Né si metterà in campo di nuovo la disputa se tali medaglie erano battute per che dovessero servire all'uso dello spendere et del contrattare che far si vede dalle persone tra loro tutto 'l giorno, o vero per memoria dell'opere già dette, essendo stata massimamente la prima di quelle due opinioni con bellissime ragioni, autorità et cognetture, come ne pare, del tutto riprovata dal sopranominato Erizzo nel medesimo luogo, ma solamente si confermarà che altro non erano le medaglie che un'altra maniera d'historie ordinate dagl'antichi per questo fin principale: che rendessero eterna memoria et fosser quasi testimoni et fidelissimi riscontri della verità lasciata da loro a benefitio de' posteri ne' libri dagli scrittori publicati, et per mostrar'ancora semplicemente la gloria, l'honore, la veneratione et il nome de' lor principi con le chiare virtù dell'animo di quelli in tali riverci scolpite, et delle qualità di queste ultime non mancano medaglie che ne fanno certa et larga fede. [194] Tale è quella infra l'altre che si vede di Marc'Antonio impera(t)ore, dove è dall'altra parte la figura d'Orfeo con la cetera in mano, posto in mezzo a varie sorti d'animali /c. 37v/ che sembrano stare tutti intenti al suono della sua dolcissima musica. Questa medesima medaglia fu battuta in honor di quel principe, essendo egli stato non solamente per santità di vita, come dicono l'historie, ma per dottrina et eloquenza tale che superò tutti gli altri principi stati avanti a lui, onde Orfeo sonante la cetera non è per altra cagione quivi posto che per significarne un huomo savio et di tutte le buone virtù ornato, perché fu dagl'antichi presa la cetera musicale per la moral virtù et Orfeo inteso misticamente da' poeti per persona che con la musica et col soave concento, cioè con le belle, savie et dotte parole, havesse da prima la religione agl'huomini mostrata, et i lor costumi bassi et vili ad alti et nobili, et la lor brutta et rozza vita all'honesta et civile ritornata, talché da coloro, da' quali detta medaglia fu improntata, non si volle altra cosa fare che attribuire a simil impera(t)ore la virtù della religione, et con quella della dottrina et della eloquenza insiememente. [195] Altre ancora non poche medaglie antiche si truovano per iscoprirne solamente la virtù dell'animo di coloro ad honore et gloria di cui erano stozzate, sì come a chi ha alcuna pratica di simil opere antiche et punto si diletta di leggere i buon libri che ne fanno mentione /c. 38r/ divien noto agevolmente. [196] Hora, venendo hormai a proposito donde i Cortigiani Ferrai(u)oli si mossero a voler formar riverci di medaglie per honor'et lode di private persone, delle quali molto di rado in vero et malagevolmente ci sono operationi alte et eccellenti, le quali, poste negli scritti de' famosi historici, possono esser poi raffermate et con la testimonianza delle medesime riscontrate, et massimamente d'attioni di private donne, quantunque nobili et gentili, poi che ad esse non so per qual cagione par quasi del tutto vietato il poter mostrar'il lor vero valore nell'alte et gravi operationi, sì come agl'huomini è liberamente conceduto, è perciò da sapere che simil pensiero de' predetti Cortigiani fu da essi mandato ad effetto mossi et sospinti sicuramente dall'essempio della detta medaglia di Marc'Antonio et d'altre a quella simiglianti, i riverci delle quali ne scuoprono le virtù speciali onde chiari splendevano et volevan far credere altrui gl'antichi che risplendessero i lor principi. [197] Là onde gl'autori della presente Ventura Befana pensarono con così fatto essempio di poter fermamente honorar persone private, nate nobilmente et allevate, manifestando le chiare virtù et le singolari qualità degl'animi loro per mezzo di più /c. 38v/ et diverse figure et immagini di persone et di cose in forma de' mostrati riverci. [198] Da' quali autori facendosi la predetta Ventura per cagioni principalissime di piacer a valorose et amorose donne, a cui par oggi che quasi rimaso sia solo il campo d'amore, avvenga che non picciolo, o sterile, ma amplissimo si renda et fertilissimo, da poter far prova del valore de' bell'animi loro et manifestare l'altezza et la nobiltà de' lor pensieri, fu havuto il primo riguardo che tal Ventura principalmente sopra vaghi et nobili concetti d'amore fondata fosse, sì come di tali venture per lo più pare esser la vera propria et degna natura. [199] Le virtù del qual amore, per non esser elle punto inferiori a niun'altre, anzi, in volerle alcuno acquistare et essercitare dirittamente, facendo di mestieri posseder'ottimamente quasi tutti gl'altri lodevoli habiti virtuosi, et essendo elle più di tutte l'altre dilettevoli, stimarono i Ferrai(u)oli che per ciò dovesse anco non leggiermente esser'altrui grato che di simili parti et qualità per loro si trattasse. [200] Et se per aventura paresse ad alcuno che tra questi riverci di quelli si ritrovino in honor di grandissimi principi et signori, li quali di molte et molto famose operationi loro vi potevano degnamente esser honorati, /c. 39r/ et non di meno vi appariscon per lo più solamente le virtù et le qualità degl'animi di essi, si potrebbe a costui dar'in risposta (s'altro non vi fosse) che così parve et piacque al Fato, dal quale furono tutti i presenti riverci mandati. [201] Ma pur non vengon meno ad esso ragioni ancora da poter ciò fare, però che, veggendo esso Fato che non mancavano al mondo più et varie medaglie di cotali principi formate in diversi preciosi metalli, secondo le diverse ragioni onde portano in sé scolpite le chiarissime loro attioni et dignissime d'ogni famoso historico, fu contento di significarne solamente le loro altissime virtù, acciò che ancora da quelle si rendessero le passate loro operationi et se n'attendessero per l'avvenire dell'altre simili et maggiori appresso. [202] Ma perciò che ne' medesimi riverci de' Ferraiuoli si potrebbono agevolmente ritrovare da alcuno spirito eletto cose non del tutto ritratte da quelli delle medaglie degl'antichi, di qui è che al presente, sì come di sopra accennandone si promesse, se ne farà non senza qualche ragionevol cagione alquanto di scusa, ma non troppa per ciò, stimando che la cosa debba per se stessa avvertire i belli ingegni onde tutto ciò sia proceduto. Et ciò in prima esser potrebbe che in questo luogo i riverci habbian d'intorno scritte lettere in /c. 39v/ forma di motto et di verso, cosa senza alcun essempio nelle medaglie antiche, dove notate erano semplici parole per dichiaratione solamente delle cose quivi segnate. [203] A che brevemente rispondendo, non si niega di essersi altrui questa volta scostato in ciò alquanto dall'uso antico, ma ben s'afferma che, convenendo servirsi hora di riverci in bisogno di Venture Befane, le quali sempremai in alcuna sorte di versi, o di motti si compongono, sì come non manco pienamente forse, che distintamente è stato dimostro nel primo proemio, o vero introducimento a questa opera, non si poté senza difetto venir meno a così fatta usanza, perciò che troppo di vaghezza et di leggiadria nel vero gli sarebbe levata questa volta tollendo i motti et i versi da così fatti riverci. Et quanto in occorrenze di simili trattenimenti sia richiesta simil vaghezza et leggiadria di versi et di motti, non m'accade farne pur una parola, rimettendo tutto ciò nel giuditio de' discreti et leggiadri spiriti. [204] Sì che per l'addotte cagioni mossi gl'inventori di tal Ventura, s'assicurano non poco a ripor motti, o versi intorno alle lor medaglie; et questi ancora vi scrissero nella lor materna lingua, più tosto che nell'altrui lontana et istraniera, avvenga che loro non fosse nascoso non mancar di /c. 40r/ quelli che con molta pugna vogliono sostenere la contraria opinione. A' quali non ci par luogo questo di dover dare in ciò risposta alcuna, essendo di già assai a bastanza stato fin qui risposto da' belli ingegni, et di queste et d'altre simili inventioni intendenti, al parer di così fatti huomini et con ragioni non punto deboli né oscure. [205] Ma con tutto ciò par che non ci manchino ancor di quelli, li quali, ostinati in simil pensiero, voglian pure che per legge inviolabile s'osservi che né intorno a medaglie, né per imprese si debbano mai usar parole vulgarmente dette, non ostante che da persone di tali concetti molto più di costoro intendenti sia stato ciò appena per conseglio accettato, et habbiano l'uso comune si può dir'in maggior parte contrario, conciosia cosa che si veggono forse non manco imprese et medaglie in questi tempi con lettere et motti scritti nella nativa lingua del suo autore che nell'altrui; né parmi trovare altra cagione che più confermar possa costoro nel lor parere, salvo forse ch'il presupporre essi che i concetti et i pensieri altrui non siano spiegati in così fatte lingue per altra cagione se non perché non siano da ognuno universalmente intesi. [206] Ma troppo in ciò veramente si gabbano se ciò si fanno a credere, poscia che a cui riguarda dritto apparirà certo che non perché non sia da ciascuno appreso et penetrato /c. 40v/ l'intendimento e 'l valor loro si levano imprese et medaglie dagl'acuti spiriti, ma sì bene per iscoprirlo altrui non con usitato modo basso et vulgare, anzi con alto et pellegrino: il che si rende anco manifesto levandosi imprese per lo più et componendosi per far intendere l'animo nostro a persone le più delle quali non sono di straniere lingue intendenti, quali si vede esser le donne, se ben loro non è oscura o nascosa veruna sorte di alti concetti. [207] Oltre che dall'opinione di costoro può facilmente seguire che tutto quello che vien mai trattato dalli scrittori dotti et scientiati nella lor lingua paterna, o vulgare debba subitamente esser tutto aperto et piano a tutti quelli che vi sappian parlare, né si ricerchi all'intender delle cose ingegno, giuditio, studio, o dottrina, sì come certamente tutto questo v'è richiesto. [208] Et ciò si vien per sé scoprendo appieno esser falso non solamente per le dottrine et scienze state fin qui nelle vulgari lingue insegnate, ma ancora molto più nelle vaghe et buone poesie nelle medesime lingue spiegate, le quali pongasi mente di gratia se a doverle ben intendere basti semplicemente il saper parlar vulgare, et parimente procurisi alquanto dall'altra parte se per ritrarsi, od assicurarsi che i concetti d'alcuno non pervengano di leggieri all'intendimento del popolo et di tutto 'l vulgo sia non poco a bastanza che quelli si rendano /c. 41r/ nobili, alti et non popolari et distesi poi per mezzo di nature di qualità et di proprietà di cose che non siano manifeste ad ogni rozzo et grosso intelletto et con maniere non così facili a ciascuno d'esser recate ad effetto, senza che vi si habbiano a mettere appresso lettere hebraiche, greche, o latine, o di qualunque altra straniera lingua oltre la nostra che hoggi vive et si parla. [209] Né mi potrei fare in niuna guisa a credere che fossero altre ragione più potenti a mantener costoro nella lor sì fatta credenza se per avventura essi non istimassero che la nostra toscana favella non ritenesse in sé per sua natura dolcezza, ornamento, gratia, o gravità veruna in esprimere et manifestar qualunque sorte di vago et alto concetto che possa giamai cader'in petto humano. Ma ciò in vero quanto di verità in sé ritenga vegganselo essi medesimi, se pur lo credono, che di soverchio mi credo essere stato questo poco che se n'è ragionato fin qui. [210] Né di ciò punto si sarebbe favellato ancora, se non n'havesse in un certo modo sospinti alquanto il vedere che dette persone hanno pur voluto ch'in questo loro errore del motto volgare siano non senza lor maraviglia incappati nobilissimi et dottissimi intelletti, tra' quali hanno reputato il dottissimo et ingegnosissimo autor dell'impresa del lauro fulminato con il motto: Sotto la fé del cielo all'aer chiaro tempo non mi parea da far riparo. /c. 41v/ [211] Ma per non mostrar di voler difender cosa a cui l'autor suo in questa parte diede facoltà di potersi difender sempre per se medesima, tornando a' nostri riverci pur col motto vulgare, poi che et i versi interi et non interi voglion hoggi costoro nelle medaglie et nell'imprese chiamar motto, oltr'a quanto in tal proposito è stato detto et provato si conferma tutto ancora, però che, facendosi tali riverci per cagion di donne, si dovean in quelli scrivere i motti sì come vi si vennero scrivendo, senza che, a voler ancora li Cortigiani Ferrai(u)oli quanto per loro si poteva in questo fatto imitar gl'antichi, erano tenuti a porvi lettere che spiegassero il lor parlar nativo, sì come si vede aperto ciò essere stato servato sempre da' latini et da' greci, scrivendo nelle lor medaglie con parole della lor propria favella. Et quantunque alcune poche se ne trovino in questo numero fatte da' Ferrai(u)oli col motto latino, elle pur l'hanno di parole tanto simili, anzi, fuor che nella terminatione le medesime con quelle che da noi comunemente si parlano, che per ciò non possono da veruno esser dannate, o riprese con ragione. [212] Potrebbe ancora oltr'a queste cose alcun altro notare et forse anco tassare in questi medesimi riverci esserne alcuno che più d'impresa che di rivercio ritenga la natura, et che più di /c. 42r/ quella che di questo gli si convenga il nome. Il che veramente negar non si può, ma pur è paruto che tra tante medaglie potesse passar senza molto frodo un'impresa ancora, conciosia cosa che tra queste due opere di belli ingegni si trovi pur qualche simiglianza, esprimendo et manifestando ciascuna di esse sempre alcun concetto dell'autore per mezzo medesimamente di cose insieme et di parole, talché l'un'e l'altra di queste due sorti d'inventioni par che si possa convenevolmente riporre ancora dall'altra parte dell'effigie del volto di qualunque persona formata dal naturale in qualunche nobil materia, nella maniera che per molte persone è hoggi posto in usanza, le quali, facendo simil effigie, o ritratti scolpiti in cameo, in argento, od in oro, gli portan con nastro di seta a collo, o sopra cappello, o birretta vagamente composti, et ancora si veggono tele, fregi et quadri dipinti per ornamento delle camere, o delle sale pur con qual sia l'un de' detti modi figurati, cioè riverci od imprese. [213] Per che fu stimato non dover esser'in tutto fuor di proposito et di ragione metter'innanzi agl'occhi degl'accorti et intendenti spiriti alcuna impresa fra cotanti riverci, ancora che molte più per aventura siano le differenze che le convenienze tra di loro, le quali se non si racconteranno al presente tutte minutamente, però dirannosi queste che non saranno forse poche né leggieri. [214] Primieramente l'imprese non ricevono persone /c. 42v/ humane né favolose, et ne' riverci l'un'e l'altre sono accettate. Nell'imprese ancora non hanno luogo l'opere de' gieroglifici semplicemente presi, non ritenendo essi in sé altra forza di significar cosa alcuna se non ad arbitrio et compiacimento d'huomini et non per propria natura, sì come appar per chi prenda il fiore, o giglio a denotar la speranza, o 'l cappello la libertà, od altro simile; benché sì fatto parere sii contra l'opinione forse di molti: ma a questi tali non è però mancato chi habbia in ciò risposto, quantunque la risposta non sia stata communemente veduta ancora dal mondo. I quali gieroglifici con ogni ragione et perfettione vengono pur tuttavia riposti ne' detti riverci, sì come poco sopra trattando de' luoghi communi di essi fu accennato et detto, et più ancora non molto lungi se ne verrà mostrando. [215] Oltr'a ciò son diverse queste due ingegnose opere tra loro, essendo la prima un manifestamento di pensiero per via di comparatione, tolta da proprietà singolari di cose naturali et da usi di opere et di instrumenti artifitiali, et la seconda una memoria di cosa già stata, od un segnale d'altrui virtù per mezzo di figure quelle significanti dimostrata, senza verun'altra similitudine, o comparatione in esse presa. [216] L'impresa ancora non si fa per particolar gloria, o lode d'alcuno, et il rivercio non si mette per altra cagione insieme che per honore, grandezza /c. 43r/ et memoria di colui solo appresso la cui effigie si pone. Questo oltr'a ciò notifica per lo più opera alta et egregia magnificamente operata, o virtù et parte rara dell'animo, com'è detto. Questa dall'altra banda discuopre un proprio pensiero, il quale sia alcuno con fermo proponimento per esseguire et mandar'ad effetto. [217] Ultimamente le parole che si mettono nell'impresa hanno questa differenza da quelle de' riverci: che in quelle necessariamente vi si convengono et in guisa tale, come non fa dubbio a veruno intendente di esse, che senza il corpo delle figure nulla significano, né il corpo senza le parole rileva cosa alcuna, là dove in questi le parole non vi stanno se non per dichiaratione delle figure, o del fatto stesso et senza possono ottimamente stare, veggendosi molti riverci che non hanno alcuna lettera appresso. Et se ancora in questi si pongon le parole, non è ricercato ch'elle siano così acute, così brevi et di sentimento, né anche tolto da provati et noti autori, sì come si sa esser richiesto ne' motti delle ben formate imprese. [218] Ma lasciarassi tutto 'l restante di quello che sopra ciò dir si potesse, là dove alcuno de' gentili Cortigiani Ferraiuoli (se vero è quello che di ciò s'intende) si prepara a trattare non con minor chiarezza che contezza della propria natura delle medaglie et di tutte le qualità necessarie /c. 43v/ che si richieggono in un bello ed honorato rivercio secondo il vero stile degli antichi, convenevoli et degni tanto di persone private quanto di publiche, o ver di principe, sì come da altri de' nostri tempi è stato fatto in alcuna parte sin qui sopra l'imprese, dandone altrui i luoghi, le regole et i precetti, acciò che con le giuste misure et pesi si possa poi sicuramente andare da' belli ingegni formando et componendo simil'opere ingegnose. [219] Et nel vero par da prender non poco di maraviglia che, essendo ancora molti valent'huomini in queste prossime età dallo studio, osservatione et diligenza de' quali è stato portato tanto di lume a questa delle medaglie, come ad altre spetie d'antichità nell'opere loro, non si sia veduto parimente chi per ogni pienezza et compimento n'habbia recata di quelle qualche luce, acciò che dirittamente si potesse alquanto caminare per le vere strade che tener si deono in saper dar'alcuna vera forma a sì fatte materie di riverci. [220] Là onde in questo mentre noi, per mostrar pure in qualche parte come si possa apprender quello che è forse in ciò più d'altro importante, scopriremo come per noi si potrà il meglio alcun luogo acconcio et proprio d'onde si possan poi agevolmente trarre i riverci accommodati alle persone /c. 44r/ private, o vero atti a dimostrar et manifestar le qualità et le virtù dell'animo altrui, sì come si può dire che siano quasi tutti questi presenti de' Cortigiani Ferrai(u)oli, che per aventura in pochi altri modi si possan comporre riverci per persone private, sì come fu di sopra mostrato. [221] I luoghi adunque per rappresentar con figure di più cose le virtù dell'animo altrui esser potranno (s'il giuditio non c'inganna) immagini di deità de' gentili presi per quella virtù, natura et proprietà che da essi era misticamente con quelle significata et intesa, et di queste ne fia prestata a ciascuno non picciola copia discorrendo et ricercando da per se medesimo per tutte quante quelle forme di dei che da loro furono riposte o finte sopra 'l cielo, ne la terra et fin dentro l'oscuro dell'inferno. [222] Oltr'a questo paiono ancora a tal opera molt'atte cose le favole et le fintioni de' medesimi gentili et approvati autori, pur che elle sieno note, vaghe et di convenevol significato et proprio con quello che si ha da esprimere et notificare. Tali sarebbono non delle favole, o transformationi cantate da Ovidio, et a queste appresso molte notabili cose sparsamente segnate per l'antiche et degne historie, et ultimamente non manco punto di tutte le dette cose sarebbono accomodate quelle che misteriosamente son prese et /c. 44v/ intese dagl'autori et che cose gieroglifiche sono da loro addimandate, tratte per lo più dalle scienze degl'antichi et savii sacerdoti d'Egitto, et perciò ancora chiamate sacre lettere, delle quali, per nostro buonissimo fato, è apparso a' nostri giorni un volume tanto dotto et elegante et pieno, quanto a giuditio degl'intendenti huomini si potesse desiderare giamai da qual si voglia nobile et alto intelletto, quale si trova esser hoggi l'opera del Pierio Valeriano, mare, veramente, et oceano da trovar'ampiamente materie et instrumenti appresso attissimi a così fatte opere d'ingegno. [223] Et tutto questo che in ciò è stato detto, s'intenda secondo l'opinione di coloro da' quali a' tempi nostri non si rifiutano ne' componimenti poetici, o d'altre simili inventioni le predette favole et opere gieroglifiche. Et di queste simili cose non mancano tra' presenti riverci, sì come tra gl'altri si vede esser quello che porta il pileo, che noi diciamo cappello, posto in significamento della libertà, per le cagioni che al suo luogo si diranno. Et felicemente in verità riusciranno sempre in medaglie a chiunque vi rivolgerà il pensiero et lo studio le dette cose gieroglifiche, pur che bene, come poco fa si disse, et propriamente sieno all'intentione dell'autori accomodate. [224] S'a veruno altro ancora porgesse mai noia alcuna il vedere che infra /c. 45r/ tali moderni riverci ve n'ha alcuni a' quali fa di bisogno, per manifestar pienamente l'intendimento loro, dell'opera de' colori, cosa nel vero, sì come in tal caso non conceduta principalmente nell'imprese, da permettersi molto meno nelle medaglie, i primi autori delle quali le formaron sempre in metalli, dove si vede chiaramente i colori non haver mai luogo alcuno, a sì fatta oggettione, et non indegna d'esser avvertita, si può senza troppa difficoltà rispondere, dicendo a chi ben riguarda che non si disdicono a sì fatti riverci per lor natura i colori ogni volta massimamente che le figure poste in quelli, perché elle sieno appieno rappresentate, hanno de' colori mestiero, poscia che non si pongon quivi le figure per altra cagione se non perch'elle aprino dirittamente la principal intentione dell'autore et mettano davanti agl'occhi altrui le cose nella forma stessa che ella fu in verità. [225] Sì che qualhora faccia bisogno, non che necessità ad alcuno, per far'intender'et conoscer la cosa, d'usar colori nelle figure che ne' riverci si pongono, non si dubbiterà punto in tal caso (quanto al veder nostro) di non concedergli a chiunque ne habbia di bisogno. Ben si confesserà parer molto meglio il non haver'in ciò a valersi di colori, acciò che tali riverci si possano più sicuramente in metalli rappresentare secondo lo stile et il costume antico, che per altro in disegni et in raccami non /c. 45v/ perderanno perciò punto della loro usata vaghezza, o valore, avvenendo tal cosa ne' riverci, chi ben la considera, più per accidente che per natura. Et gl'antichi ancora, per le dette cagioni, non si sarebbono forse guardati da porre ne' lor riverci i colori, s'havesser creduto d'appoggiarli a soggetto, o materia tale che gli havesse potuti assicurare di quella perpetuità che in essi andavano ricercando. [226] Non sarà forse ancora mal nessuno a non lasciar'in dietro di toccar con due parole, prima che si ponga l'ultima mano a questo secondo discorsetto, sopra la parola onde si chiama l'altra parte delle medaglie poi che da certi riverso, da alcuni rovescio, et da altri rivercio è addimandato. [227] Diciamo brevemente, adunque, che, lasciate le due prime voci, si son voluti questa volta i Ferrai(u)oli appigliare all'ultima, confidati forse di poter ciò fare per non poche, né leggieri cagioni, le quali per avventura son queste, o simiglianti. Perciò che, quantunque sieno incontra a questo vocabolo rivercio così detto, o scritto, il parlare et la scrittura de' primi popoli et de' migliori scrittori toscani, li quali, se non di medaglie, pur d'altre cose et propriamente parlando hanno detto rovescio et non rivercio, donde è stata poi presa la parola metaforica delle medaglie, nominando una delle parti d'esse rovescio, con tutto ciò l'uso del /c. 46r/ parlar de' nobili nella città di Siena, dove la presente Ventura fu tratta, è in questo modo diverso, et dove impossibil quasi sarebbe che alcuno s'inducesse mai a formare et proferir simil parola altrimenti per non venirne ancora beffato, lasciando rivercio per pigliar rovescio. [228] Il che è da stimare che habbia non leggiermente confortato simili Cortigiani a così doverla scrivere, et in ciò possono essere stati affidati non poco ancora dal parer loro che la lor patria non sia dell'ultime città di Toscana et che in quella per ogni tempo siano state persone che habbian dato qualche opera et studio alla forma della bella lingua et della buona scrittura di tal provincia, et che con alcuna sicurtà et ordine si possa dagl'habitatori vicino l'Arbia riporre in scrittura non solamente una voce alquanto variata da quella medesima che è parlata da quei dell'Arno, ma dell'altre ancora, usate però con legittime formationi et derivationi di nomi et di verbi sue naturali et proprie, quantunque diverse alquanto forse dall'altre che son passate oggi in assai comune uso et attribuitesi del tutto la vera et perfetta proprietà del parlar toscano. [229] Che s'alle città della Grecia, quando quella provincia di popoli et d'ingegni fioriva altamente, non fu vietato lo scriver grecamente a ciascuna secondo l'uso di lei nativo et proprio, non ostante che vi fosse la /c. 46v/ lingua del parlar comune et di tutte l'altre più perfetta, non so vedere con qual ragione debba esser vietato alla città di Siena, se non la prima, non anco la terza della provincia toscana, di scriver voci, così di nomi, come di verbi, secondo l'usanza, o più tosto la natura del parlare di quella, pur che tuttavolta con giuditio, con regola et con imitatione de' buoni autori si spieghino i lor concetti, sì come far conviensi a tutti coloro che dalli scritti loro amano riportar nome et vera lode. [230] S'aggiunge a quanto s'è detto ancora il parerne che la voce rivercio sia più bella et più dolce a proferire et comunemente più usitata in molte parti d'Italia, et tanto più confessandosi per non pochi giuditiosi spiriti (se non voglion perciò in parole et in scritture lusingar questa natione) che la lingua de' sanesi proferisca le toscane voci con molto maggior gratia et dolcezza che quella di coloro non fa che s'arrogano d'essa, per ogni rispetto et cagione, tutto 'l principato et l'imperio, et che i sanesi in molte cose hanno raddolcite et temperate, o schifate alcune asprezze che in effetto si veggono nel resto della Toscana. [231] Ma per non esser questo breve luogo capace alle tante cose che in sì fatto proposito dir con piene ragioni si potrebbono, si lasciarà tal impresa per hora da parte, non dovendo mancar (come si spera) chi con altri nobilissimi concetti academici /c. 47r/ sia insiememente per trattare con abbondanza et chiarezza di questo particolare, cioè Quanto possa ciascuna nobil città di Toscana, scrivendo nella lingua nativa et propia, assicurarsi di scriver bene et toscanamente, ma se sia vero che la parola rivercio più bella sia et più vaga che rovescio, rimetterassi al libero giuditio de' più dilicati et purgati orecchi liberi da passione. [232] Ben si dirà che quello sia più ragionevolmente detto che questo non è, conciosia cosa che la particella ri nell'esplicar sì fatte voci di reiteramento di cose nella lingua toscana sia molto più in uso che la ro, dicendosi in quella riandare, ritornare, rifare, riedificare et ultimamente rivolgere et rivoltare, donde si vede essere stata presa questa voce di rivercio, però che altri si rivolta la medaglia in mano per veder ciò che dall'altra banda vi sia riposto, senza dir nulla del biasciamento et aprimento di bocca che convien fare a chi rovescio vuol proferire: et chi nol crede ponga mente, se gli piace, a chi principalmente per sua natura così la parla, et basterà per chiarirsi in tutto chi bene a rivercio pronuntii tal parola. [233] Che poi buona parte d'Italia ancora dica rivercio, et non rovescio, basti et appaghi altrui l'essempio della corte di Roma, dove si ripara sempre il fiore de' nobili spiriti Italiani, da' quali è certo che si parla tal parola come da' sanesi, et non come /c. 47v/ da alcuni altri vien fatto. Dove ancora chi non sa che, tra l'altre infinite delicatezze et virtù di cui ogn'hora vien più ornata et più bella quella primiera corte delle provincie christiane, si netti et si pulisca questa nostra favella et si ammendino et purghino tutte l'imperfettioni del parlare et del proferir proprio et naturale delle città particolari di Toscana? [234] Et in maniera dagli ingegnosi et politi cortigiani di Roma si dà opera intorno a ciò, che non mancano ancora di quelli più arguti et faceti, li quali per lor diletto facciano conserva d'alcune parole propriissime et di tuoni et di voci et di pronuntie di diversi popoli toscani, per prendersi talhora non leggiero spasso di coloro che, uscendo uccelli nuovi del nido, se ne volano di posta a Roma et per esser nati in Toscana non prendon guardia niuna come si parlino, dandosi a creder che ciò che dicono, et nella maniera che lo dicono, debba esser a martello ricevuto per ottimamente detto. [235] Della parola riverso non si dirà altro, essendo voce del tutto lombarda, benché sia alcuno de' primi che oggi hanno trattato di medaglie, il quale delle dieci volte le nove dice "riverso", forse per che l'usò l'Ariosto in rima là dove disse: "Sobrin raddoppia il colpo, et di riverso". [236] Et tanto basti haver detto per aprir in parte l'intentione sopra cui fu posata la Ventura de' riverci delle /c. 48r/ medaglie de' Cortigiani Ferrai(u)oli, et per discioglimento ancora delle dubitationi che pareva si potesse muover'intorno alla composition di quelli. Passisi hormai ad alcune brevissime dichiarationi di cose che per aventura potrebbon parer'alquanto oscure intorno a ciascuno rivercio particolare. Brevi dichiarationcelle intorno a' di sopra dipinti Riverci, a' quali rispon= deranno col numero appresso segnato I. [236] Così è nota cosa che Minerva sia presa dagli 'ntendenti, oltr'agl'altri suoi significati, per la pudicitia, sì come è nota et manifesta la figura di quella dipinta in questo rivercio: sì che né quella, né questa accadrà hora voler mostrare con parole esser vera. [237] Il dragone poi che l'è appresso ne dà ad intendere la svegliata et vera cura che honesta /c. 48v/ et nobil donna dee sempre tenere della sua pudicitia incontro alle molte et diverse insidie che ogni giorno da più parti le vengon tese, perciò che si ha per cosa ferma il drago esser di acutissima vista et di ferocissima forza per sua natura. [238] Si lascia d'andar descrivendo minutamente la persona et l'habito di Minerva et di gir discorrendo sopra ciascuna parte et proprietà di quella, sì per non esser cose queste del tutto scure et il luogo presente esser dedicato alla somma brevità, sì ancora per poter ciascuno, ricercandole da varii scrittori che n'hanno parlato, ritrovarvele pienamente trattate, o ver con l'alto ingegno et giuditio suo fabricarvi sopra belle et nuove considerationi; et il medesimo si dice intorno a tutti gl'altri riverci che con questo presente riterranno alcuna simiglianza. II. [239] La figura posta a man destra del secondo rivercio è la Virtù, vestita tutta di bianco, con ali parimente bianche sopra gl'homeri, con ghirlanda di Lauro in testa et ramoscello di palma in mano, posata un piede sopra un corpo quadrato, o ver dado. L'altra figura è la Fortuna, come per se stessa ottimamente si manifesta. [240] Certa cosa è, nel vero, che grande et infinito è il valor della virtù: /c. 49r/ niente di meno talhora, più tosto, in verità, per poter'apparir'altrui, che ella ne sia per se medesima bisognosa, le fa mestieri ancora del favor della fortuna, onde il dottissimo messer Alessandro Piccolomini, per significarne cotal intendimento, fece dipinger le due sopranominate figure, dicendo appresso: o questa vaglia, cioè la Virtù, o questa voglia, cioè la Fortuna; le quali è chiarissimamente noto al mondo con quanto raro et mirabil consentimento si ritrovino oggi ugualmente congiunte insieme in questo non men fortunato che savio, prudente et virtuoso Gran Duca. III. [241] Riguarda il presente rivercio al nome della donna a cui fu mandato dal Fato, nominata Artemisia, conciosia cosa che la moglie di Mausolo re di Caria, chiamata con questo nome, amasse di maniera il marito che, venuto quello a morte, prendesse l'ossa et le ceneri di lui, et con acque et unguenti odoriferi le mescolasse insieme et le bevesse, et altri molti segnali ancora non minor di questi mostrasse dell'ardentissimo amore che a quello portava. [242] Dalla quale Artemisia ancora, a perpetua ricordanza della pietà sua verso il marito, fu fatto edificar'un sepolcro di tal materia et di sì fatto lavoro, che da poi numerato venne infra le sette maravigliose cose che fossero allhora nel /c. 49v/ mondo. Et da indi innanzi ancora tutte le sepolture, o depositi drizzati in piedi per pompa et memoria de' grand'huomini stati al mondo furono mausolei nominati, sì come da Svetonio Tranquillo, nobile scrittore, il sepolcro che fece Augusto fu chiamato Mausoleo. IIII. [243] Altea, moglie d'Oneo re di Calidonia et madre di Meleagro, quando gl'hebbe partorito questo figliuolo, vide starsi intorno al fuoco le tre Parche, le quali, tenendo in mano un broncon di legno, assegnavano et riponevano in quello il termine fatale della vita del quivi nato fanciullo, la qual cosa ben osservata da lei, partite indi le Parche, prese il detto legno et con diligenza et cautela lo ripose, et custodillo fin a tanto ch'il figliuol Meleagro, per cagion della testa del famoso porco calidonio, mandato per isdegno da Diana a distrugger tutta quella contrada, fece morir due fratelli di lei, li quali non si volean mostrar contenti del dono fatto da esso in premio dell'occiso animale ad Atalanta giovanetta, la quale era stata primiera a ferirlo. [244] Là onde Altea, mossa ad ira et vendetta contra il figliuolo, ricordatasi del tizzon fatale, corse subbitamente a porlo nel fuoco: et acceso /c. 50r/ ardendo, appresso si consumò insieme con esso la vita dello infelice Meleagro. V. [245] Per l'armi d'Amore rotte, spezzate et isparse che quivi hora scorgiamo, altro non pare in vero che si debba intendere se non che la parte ragionevole in noi gagliardamente contrastando con quella del senso, alla fine la supera et la vence, tollendole di mano et rompendo l'armi onde quella suole star sempre armata per ferire et prender i gattivelli et semplici cuori. Et di cotali armi si pruovano esser non deboli ma forti l'humana lascivia, i pensieri dolci et soavi, i piacevoli giuochi, le pompose et sollazzevoli feste, i balli, i suoni, i canti, i delicati cibi, et in breve il lento et brutto otio di tutte queste cose prima origine et potentissima radice. VI. [246] Furon dagl'antichi drizzate statue, tempii et altari in honor dell'Honore. Il che senz'altro può darne ad intendere in quanta, et quale stimatione fosse quello tenuto sempre da quelli egregii et immortali spirti, et per conseguente ancora quanto debba esser havuto in grado et /c. 50v/ pregiato sempremai da ogni generosa et nobil persona al mondo. [247] La figura dell'Honore si truova disegnata per un giovane senza barba, tenente sotto i piedi una tartuca; in gamba li stivaletti, nella destra mano uno scettro et nella sinistra un'asta; in testa la celata con le penne. [248] Per la celata posta in capo dell'Honore la virtù si vuole intendere, la quale fa di mestieri per conseguir'honore et per la quale ancora ci rendiamo sempre sicuri da tutte le soprastanteci insidie, per la qual cagione medesimamente a quello è posta l'hasta in mano; per le penne è significata l'acutezza et l'altezza dell'ingegno, drizzato sempre a cose alte et singolari. Per lo scettro l'imperio di domar'i vitii et raffrenar le voglie et l'affetti humani. [249] Gli stivaletti, o borzacchini, che porta in gamba possono ammonirne di due cose: una si è che coloro che bramosi sono di seguitar la virtù deono sempre presti esser et pronti per dover'essercitar quella et mutar luogo qualunque volta lor faccia di bisogno. L'altra si è acciò che noi copriamo et difendiamo i piedi et le gambe, le quali, per la debolezza loro cagionata da questo corpo terreno, ci rende molto sposti et suggetti a' colpi delle voglie et degli affetti, et ciò per mezzo della prudenza facciamo, di cui è gierogliico, simbolo et significato, come ci vogliam dire, la tartuca che l'Honore si tien sotto a' piedi. /c. 51r/ [250] In questa maniera, adunque, drizzando l'huomo i passi suoi con la scorta della prudenza appresso, farà sì che per se medesimo non s'indurra giamai nella necessità o pericolo dell'errore, et terrà sempre avanti gl'occhi suoi et risguardarà il vero et giusto honore. VII. [251] Quegli figurato accanto ad Amore è Imeneo, riputato dall'antichità signore et dio delle nozze et de' maritaggi. Dicono alcuni che costui fu figliuolo di Venere et di Bacco; altri d'Urania, una delle nove Muse, et il primo fra gl'huomini che ordinasse li sponsalitii et li matrimonii. Altri affermano Imeneo essere stato huomo ateniese, il quale, havendo tolte dalle mani de' ladroni alcune fanciulle vergini, le restituì salve et intatte a' parenti loro. Et per questa cagione essere stato poi da' gentili chiamato il suo nome nelle nozze, sì come di persona difenditrice della pudicitia delle giovani donne. [252] Altre et diverse opinioni ancora sono rapportate da varii autori dell'esser d'Imeneo, et secondo quelle diverse son le cagioni per che egli fosse invitato, et con letitia et festa chiamato dalle genti nelle nozze et matrimonii loro, ne' quali, sì come Imeneo senza la compagnia di legittimo, sincero et ardentissimo amore non può giamai operar cosa di niun profitto buono, così all'incontro, congiunto /c. 51v/ strettamente et santamente con quello, non produce giamai se non cose di dolcezza, di bontà et di somma perfettion ripiene. VIII. [253] Era in costume appo gl'antichi di far sacrifitio alla fede con la man velata per darci ammonimento che la fede, per qualunche cagione altrui donata, dee star sempre coperta et secreta. Della fede poi vera proprietà può saper ciascuno esser la saldezza et la costanza di quella, la qual per la pietra del diamante qui riposta vien'intesa, sì che congiunte queste due sì fatte cose nella fede, et la secretezza et la costanza insieme, non ha dubbio niuno che faccian poi un composto interamente perfetto. VIIII. [254] Può ciascuno da se medesimo per così fatto rivercio comprendere che Amore habbia a' dì nostri ancora ritrovata in altrui di quella grave forza ch'egli adopera verso gl'altri continuamente, cioè del ferire con amorosi strali, sì che esso, quantunque dio dell'amore, sia stato pur giunto al passo et amorosamente piagato. Et questo nel medesimo modo che da Apulegio è favoleggiato Cupido esser già nell'amorosa rete di Psiche, leggiadrissima fanciulla, /c. 52r/ involto et preso, et tutto ciò molto meglio avvertirà qualunche spirito gentile che habbia veduta mai la donna per cui è stato composto simil rivercio, o vero che habbia almeno udite per alcun modo ricordare le celesti bellezze et le divine amabili maniere di lei. X. [255] Sono stati attribuiti a Giove gli scettri et regni, le potestà et i governi grandi sopra quelli, et perciò il presente rivercio non può haver riguardo ad altro che al dignissimo scettro et felicissimo regno di questo Serenissimo Principe et al giusto et prudente governo principalmente de' suoi stati, de' quali, con somma sodisfattion di lieti popoli, gli fu dal prudentissimo gran padre posto in mano il freno e 'l governo. La palla rossa che Giove tiene in mano è simbolo della Serenissima fameglia de' Medici, rappresentante in questo luogo il mondo. XI. [256] La forma del tempio si dichiara per se medesima, et l'insegne d'Amore quivi poste manifestano a qual delli dei sia consegrato, /c. 52v/ et dal corpo della presente medaglia, dallo spirito et dalle sue parole si scuopre quello che per lei si debba, o si possa comprendere. XII. [257] La favola di Titio, a cui sono continuamente divorate le viscere dall'augello dall'adunco rostro, messaci hora innanzi dipinta, potrà hora ancora, a chi voglia andar quella alquanto adentro riguardando, mostrar facilmente ciò che con la sua scorza ella ricuopra. XIII. [258] E' da sapere che tutti i fiori sono tenuti per simboli, o ver significati della speranza. Perciò se la speranza (come diffinisce il platonico Speusippo) è un aspetto di bene, sì come all'incontro la paura un movimento d'animo con aspettation di male, et se dal veder noi i fiori sogliamo indi l'uso de' frutti attendere, non farà dubbio a persona ch'il fiore non sia annunciator del futuro bene et appresso che non prometta a man a mano il /c. 53r/ crescente frutto. [259] Ma quantunque di tutti i frutti sia il privilegio di apportarci buona speranza, niente di manco uno oltr'a tutti gl'altri, cioè il giglio, per comune consentimento tiene il primo luogo di questo significato et perciò nell'antichità con la scrittione della speranza si ritruova più tosto il giglio che qualunque altra sorte di fiore. Per che si vede la medaglia dell'imperador Alessandro Pio Augusto haver dall'altra parte una dea che nella destra tiene il giglio col motto SPES PUBLICA. Ancora il medesimo motto colla medesima figura si vede nella medaglia dell'impera(t)or Emiliano, et in quella di Tito Claudio si legge SPES AUGUSTA. XIIII. [260] Appresso i popoli di Livonia fu una specie di giuditio et di giuramento sopra 'l ferro rovito, più tosto superstitiosa in vero che pia, per che, coloro che d'alcun grave fallo et sceleranza fossero accusati, erano chiamati al ferro infocato et talhor forzatamente erano a quello costretti. [261] Il costume era di questa maniera: ch'il reo del peccato dovesse prender'in mano il ferro tratto fuori di mezzo i carboni accesi, mostrando questo suo atto agl'accusatori et a' giudici, et se egli senza cuocersi et sentirne /c. 53v/ punto di offesa et di dolore sano rimanesse della mano et salvo, dovesse interamente esser dall'accusa assoluto, ma s'egli non havesse potuto sofferir la forza di quel fuoco, sì come convinto del fallo statogli opposto venisse subitamente condennato. XV. [262] Fu dagl'Egittii, solennissimi investigatori delle cose naturali, osservando ritrovato nella colomba tanto di pudicitia et di fede verso il compagno suo che, volendo essi descrivere et significar donna nella vedovanza perfetta et riguardevole, dipensero una colomba nera, et con tal segno dichiaravano aperto che colei non fosse passata alle seconde nozze, ma che tutta oscura et mesta manifestasse il grave dolore ch'ella sostenesse del primo suo morto marito. [263] L'usar nelle cose dogliose et meste il color negro fu già, com'è hoggi, ancora comunemente usanza di molte genti et nationi, quantunque scriva Plutarco et Erodiano che ne' mortorii degl'imperadori romani usassero le vesti bianche. Il color nero è segnal di fermezza et di perseveranza, ma gl'altri colori trapassano agevolmente d'uno in altro et col mescolamento di corpo più scuro divengono più spessi /c. 54r/ et più densi, infin a tanto che con ordine diritto pervengano a quello che veramente è nero, perciò che allhora ivi ciascuno si ferma. XVI. [264] Il pesce qui dipinto è da' latini chiamato echino di mare per dividerlo da quello della terra, et noi lo possiam domandare riccio marino per separarlo dal riccio terrestre. La sua figura è quasi in forma di lenticchia, la crosta di chiocciola et veramente scabrosa, con ispesse linee et righe tirate quasi in forma ritonda et alquanto dipinta. E' armato di spine nella guisa del terrestre, ma quelle di questo son'alquanto più splendenti. [265] Questo animale, sì come riferiscono valenti scrittori, prevedendo per sua natura le fortune et le tempeste che deono sopravenire in mare, non meno che quell'altro si faccia quelle di terra, si provede di molte pietruzze et di rena, et di queste caricandosi si fortifica contra la forza et orgoglio dell'acque gonfiate. Onde non sono mancati di quelli che per lo riccio marino hanno figurata la sicura navigatione, conciosia cosa che i naviganti, dall'accortezza di quello avver/c. 54v/titi, proveggiano a' bisogni loro et si rendan sicuri dalle tempeste del mare. XVII. [266] Essendo stato il Serenissimo Principe di Toscana, pel gran governo che egli amministra, assimigliato al gran Giove, ragionevol era bene che la Serenissima sua moglie fosse accomparata a Giunone. Dalla quale, per lo presente rivercio levata via ogni alterezza, superbia et gelosia et altre simili non buone qualità, di cui ella venga notata dagli scrittori, vi sono state lasciate iscoperte et affermate tutte l'altre belle et gran virtù et potestà di che quelli medesimi hanno fatta lei ricca et adorna, sì come dal motto si può comprendere, il quale ancora par che tiri altrui grandemente nella consideratione del dignissimo titolo di Sua Altezza, et non meno niente appresso in quella grande et santa humiltà che vivamente regna in così gran donna et reina. XVIII. [267] Gli Scithi popoli havevano in usanza, qualunche volta volevano do/c. 55r/mandar'altrui favore et aiuto ne' lor bisogni et necessità, di far distender'in terra una pelle di bù, et con le mani rivolte dietro le reni sedervi sopra colui che bisogno havesse, dove tutti coloro che lo volevano sovvenire ponevano il destro piede sopra la detta pelle, dichiarando quanto fosse quello di che potessero far dono et gratia al domandante. XVIIII. [268] Nota è la pittura di Diana, nota quella d'Amore et non men noto il significato in che quella et questi si prenda ogn'hora et di qual maniera appresso sieno essi nemici insieme. XX. [269] Molti et diverse cose si trovano scritte da più autori in dichiaratione delle tre diverse parti d'animali onde è stata composta la chimera, cioè della parte dinanzi di leone, della parte di mezzo di capra et di quella di dietro di drago, o ver serpente. Ma quella opinione intorno a ciò par che sia molto volentieri ricevuta da' belli intelletti che per la parte dinanzi s'intenda la ferocia et la nequità /c. 55v/ dell'amore, la qual fu da Bellorofonte postoci hora davanti agl'occhi vinta et superata, perciò che di tal sorte par che sieno i principii in amore che nel primo incontro c'assaliscano con fierezza di leone. Per la capra fu significata la lascivia, a cui il medesimo eroe fortemente fece resistenza, per lo drago, o ver serpente, fu significata la battaglia et il contrasto pericoloso che in amore si trova. XXI. [270] Il drago, per le sue disopra raccontate parti della sua prontissima vista et ferocissima forza, fu ancora da' poeti posto alla guardia et difesa delle cose ricche et belle, sì come furono i pomi dell'oro nel bel giardino delle fanciulle Esperide. XXII. [271] Dice Eutimio che, in qualunche luogo delle sacre lettere si fa mentione della nettezza et purità delle mani, sono per le mani l'attioni et l'operationi significate, essendo che per mezzo di quelle sian solite farsi l'opere sue dall'huomo. La mondezza /c. 56r/ delle mani senza dubbio niuno dimostra l'innocenza, onde ancora l'atto del lavarsi le mani è segno d'innocenza, quasi che di non l'haver imbrattate allhora gl'huomini facciano professione. [272] Gl'antichi, ogni volta che volevano con testimonio confermare sé d'alcuna sceleratezza esser'innocenti et non s'esser mescolati in veruna lorda attione, né prestatovi il lor consentimento, al cospetto di tutta la moltitudine si lavavano le mani, acciò che da quella mondezza delle mani dessero inditio insiememente della purità et candidezza dell'animo loro. XXIII. [273] Da' filosofi che delle cose di natura lasciaron nobilissime cose scritte fu detto fra l'altre che qualhora l'obietto sensibile d'alcun de' sentimenti nostri è di tanta forza et valore che ecceda et avanzi fuor d'ogni proportione la potenza del senso a quello appropriato, qual sarebbe un grandissimo et stupendissimo suono che percotesse l'orecchie, od una splendentissima et soprhumana luce che ferisse l'occhio d'alcun mortale, medesimamente non possono essercitar l'offitio et le operationi loro del veder et dell'udire, ma ne divien'/c. 56v/ancora offeso et guasto lo strumento per lo cui mezzo ponevono in opra l'uditiva virtù et la visiva potenza loro. Et il simile intender si dee degl'altri sentimenti ancora. [274] Onde si può hora facilmente stimare di qual forza et virtù fosse la luce che tolse gl'occhi ad Amore, il quale ci si presenta qui davanti fatto cieco per la somma potenza d'un lampo et d'uno splendore onde è stato fierissimamente percosso, poscia che, non si dovendo credere che le parti et le più nobili del corpo di quello sieno caduche et debili, sì come le nostre mortali, ma celesti et divine, fu di mestieri che maggior divina possanza che 'n lui non era si trovasse in quel luminoso colpo, il quale per non poter sostener con gl'occhi suoi gli fu forza venir meno della sua luce, et da indi innanzi restarne privato sempre. XXIIII. [275] Si fa riconoscer la presente figura dalla sua notissima favola d'Issione penato sopra la girante ruota in inferno. Intorno a cui varie cose potrebbonsi andar col discorso applicando, sì come /c. 57r/ ciascun pellegrino ingegno per se medesimo può benissimo cognoscere et con l'effetto comprovare. E ciò per avventura sarebbe se si ponesse mente a' continui movimenti ch'in occorrenze d'amore, di fortuna, o d'altro avvengono all'huomo, per li quali accada che, sì come la rivoltata ruota in un medesimo luogo, benché con le parti sue mai non si fermi et sempre sia mossa et agitata, niente di meno tutta insieme presa et considerata sta salda et forte et mantiene tuttavia il vero essere et istato suo, così medesimamente l'huomo savio et prudente da' casi predetti, quantunque travagliato spesse volte et turbato sia, nulla di meno fermo et costante si conserva ogn'hora nel suo virtuoso operare, né da quello è giamai per accidente alcuno ancor che grave del tutto rimosso, né levato. [276] Et che 'l tormento amoroso si possa a quello assimigliare che per la voltata ruota si sostiene, ne fa dolente testimonianza quel plautino amante dicendo: "Lasso me, ch'in questa ruota d'amore agitato, voltato, stratiato, stimolato et conquiso mi ritruovo". [277] Altre considerationi appresso, et di queste molto maggiori, si potranno ne' belli intelletti destar' et muovere sopra questo, od altri concetti di tali riverci a questo simili. Et hora massimamente da chiunque volgerà la mente alle /c. 57v/ singolari parti et chiarissime virtù di colui al quale è stata ordinata dal Fato et dedicata la presente medaglia. XXV. [278] Avvenne l'anno prossimo passato nelle sere del carnovale in Siena, c'havendo alcuni non meno ingegnosi che nobili giovani della città continuato di gentilmente trattener vegliando alcune bellissime et nobilissime donne, una volta tra l'altre trascorse il trattenimento loro per la piacevolezza sua fino all'alba del giorno, quando, partendo le donne per andar'alle case loro, furono a quelle da' medesimi giovani accompagnate, li quali, preso al fine dall'ultima che condussero in casa di lei commiato, non essendo punto ancora aggravati dal sonno perduto la notte passata, tutti concordi così per tempo lietamente s'inviarono verso una porta della città per potere con libertà maggiore goder'insieme della loro usata dolce conversatione. [279] Tutti per ventura havevano allhora in dosso il ferraiuolo, tra' quali essendo uno che l'havea di rosso colore, et perciò molto apparente infra gl'altri, procurata questa cosa da tutti, fu di comune consentimento chiamato et salutato da /c. 58r/ ciascuno per lor Principe. Egli, non rifiutando così bel titolo, né sì gran carico appresso del dover'altrui comandare, cominciò a valersi dell'autorità sua et a divisar varii carichi a ciascuno, creando in tanto tutti gl'offitii ch'ad una vera et nobil corte sono dovuti et necessarii, sì che non era alcuno di quella nobil compagnia che, con ogni osservanza, prontezza et riverenza, mancasse di dire et di far tutto quello che dal suo Principe gli venisse comandato. [280] Questa compositione et adunata di giovani, ridotto in simil forma a caso et per giambo, hebbe così bello et gratioso incominciamento che non parve di poi a niun di quelli che v'erano intervenuti, per la dolcezza et sodisfatione di ciò presa, che per niun conto si dovesse lasciare svanire, ma con ogn'opra et diligenza da condurlo fosse avanti sotto un sì bel nome di Corte, da veruna sì fatta compagnia d'huomini non mai più preso, et con opere liete et ingegnose incaminar si dovesse arditamente ad honorate imprese et di quelle buona parte si rivolgesse al servigio et essaltatione delle nobili et virtuose donne. [281] Non mancò a sì bel pensiero il suo dovuto effetto, sì che aprirono i predetti giovani subitamente una nuova Corte, aggiungendo ancora altri accorti et destri ingegni /c. 58v/ desiderosi d'entrar'in quella, et in breve divenne tale quale si vede esser ne' presenti giorni. Et indi a questo dì sono stati dati quei saggi della destrezza et del lor valore che non senza diletto et contento altrui si sono nella lor patria veduti, con isperanze non leggieri che debbano da quelli esser dati degl'altri per l'avenire non punto di minor succo et dolcezza. [282] Né a caso per certo è stato il presente rivercio dalla sorte a simil gentildonna mandato, essendo ella veramente tra le principalissime di quelle per cagion delle quali la predetta Corte s'aperse, et per poter loro in ogni miglior modo servire et piacere tuttavia più numerosa et fiorita divenne. XXVI. [283] I due nobilissimi pianeti di Venere et di Marte, la figura de' quali è nel presente rivercio con atto amichevole insieme disegnata, erano così disposti et situati nell'alte parti del cielo et così l'un verso l'altro risguardava, allhora che per largo et benigno favor delle stelle fu al mondo prodotto il romano eroe a cui è il detto rivercio destinato, che la ferocia et l'asprezza che per natura /c. 59r/ sempre si ritruova in Marte divenne dalla benignità et dolcezza naturale di Venere temperata, et all'incontro queste due piacevoli qualità di Venere furon da quelle agre di Marte in guisa condite che n'uscì formato un composto d'ogn'alta et gioconda virtù pieno et adorno, et fu uno aspetto celeste in somma di tal dispositione qual bisognava a far concepir'et nascere un così fatto eroe, come al presente conosciamo questo compiuto signore, conoscendolo noi attissimo ugualmente all'alte cure et importanti imprese della guerra et alle gratiose et honeste della pace, talché di lui par che con ogni ragione dir si possa ch'egli col valore, sapere, gentilezza et leggiadria sua veramente sia huomo da tutte le sorti de' tempi et da tutte l'hore. [284] Qual fosse la forma et la disposition dell'aspetto de' due già detti pianeti in cielo, et con qual cambievol temperamento finalmente si riguardassero l'un l'altro quando un così fatto parto venne nel mondo, si lascia a' dotti astrologi considerare. XXVII. [285] Appare chiaro per se stesso che questa medaglia con la sua figura ha /c. 59v/ riguardo all'atto che si legge di Portia romana, figliuola di Catone et moglie di Bruto, li cui castissimi carboni accesi sono da tutti i secoli in grande ammiration tenuti. Perciò che, intendendo Portia che Bruto suo marito era ne la battaglia de' campi Filippi rimaso vinto et morto, poi che non l'essendo conceduto 'l ferro, né alcun'altra cosa per occidersi, non dubitò prendersi in bocca i carboni ardenti, imitando con spirito femminile il fine del padre suo e la morte virile d'esso, del che come donna della gentilità meritò non poca lode et lasciò in dubbio s'ella havesse operato cosa di maggior fortezza di lui. Poscia che quegli con usitato et facile et ella con nuovo et difficil genere di morte et di più intenso dolore distrusse se medesima. XXVIII. [286] Quantunque la figura che con la verga in mano appresso ad una serpe ci s'offerisce hora davanti sia quella d'uno incantatore, et perciò possa parer forse a proposito ad alcuno ch'in questo luogo si debba in alcuna parte mostrare che cosa sia incantesmo, o ver'incanto, di quante sorti se ne ritrovi, quali siano gl'effetti loro, quello che /c. 60r/ per ciò fare et usar si convenga, non di meno non vi se ne farà però mention veruna, come di cose non punto degne, né convenevoli a persone honeste, civili et sopr'ogn'altra cosa cristiane, del tutto nimiche non che lontane da così fatti pensieri et magiche operationi. [287] Ben si potrebbe per aventura, moralmente parlando, dir che le gentili, accorte, belle et passionate attioni amorose habbian forza talhora non piccola di legare altrui a voglia propria et di cambiarlo non leggiermente da se medesimo et del tutto in atto trasformarlo, sì come da' veri et sinceri amanti questa si prova come vera et principal passione che ne faccia loro sentir'amore. [288] Et il veracissimo amator di Laura moltissime volte queste trasformationi mostrò d'haver'in sé provate là dove disse: L'aura celeste, che 'n quel verde lauro spira (ec.) può quello in me che nel gran vecchio mauro Medusa quando in selce transformollo. Et là dove disse ancora: E mi fece obliar me stesso a forza che tien di me quel dentro, et io la scorza. /c. 60v/ [289] Con tutto quello ch'ei cantò nella maggior canzone di lunghezza di versi, di gravità, di stile et d'altezza di concetti ch'egli habbia in tutto 'l suo mirabilmente grave e leggiadro Canzoniere, et onde le venne poi ragionevolmente il nome della canzone delle trasformationi. Et forse non meno quando disse: Gratie ch'a pochi il ciel largo destina. Rara virtù non già d'humana gente infino al fin del sonetto: da questi maghi trasformato fui. [290] Che se col canto, come disse quell'altro raro poeta, si vince il serpente et gli si toglie il suo veleno, non crederemo che, aggiunti a quello in amore gl'atti, li sguardi et l'opere d'una leale et larga servitù, di canto non divenga potentissimo incanto? XXVIIII. [291] Che appo gl'antichi, sì come hoggi ancora, fossero asili, altari et luoghi di sicura et santa franchigia, non credo esser nascoso a veruno. Perciò Priamo appresso Virgilio, perduta ogn'altra speranza di salute, si fuggì all'altare, al quale la moglie disse; Haec ara tuebitur omnis. /c. 61r/ [292] Et Marco Tullio per Roscio comedo: "Sicut in aram confugit ad huius domum", cioè "Sì come all'altare s' è di costui rifuggito alla casa". Et Ovidio nel libro de' Tristi: "Vnica fortunis ara reperta meis", "Unico altare trovato a mie fortune". In tanto appresso gl'antichi era noto simil concetto che ne divulgarono il proverbio: "Confugere ad sacram aram", cioè "Rifuggirsi al sacro altare", per significar luogo di sicurissimo rifugio. XXX. [293] La figura che nell'altra parte di questa medaglia si scorge in habito ninfale appresso un antro, grotta, o spelonca, è la ninfa Echo, di cui, com'è noto, si favoleggia da' poeti che, essendo lei da Narciso, dell'amor del quale sommamente ardeva, schernita et sprezzata, da estremo cordoglio trafitta consumò infelicemente la vita sua, et convertito il corpo suo in un duro sasso, non ritenne altro che la voce, per il che di lei fu detto: "Et quella che lui amando in viva voce / rimase il corpo un duro sasso asciutto". [294] Echo è un ripercuotimento di suono, o di voce, sì come tal parola nella lingua dove fu formata significa. Si forma nelle valli et negl'altri luoghi concavi, dove è mosso, o rotto l'aere ch'indi risulta, ne' qua' luoghi con più numeroso ripercuotimento sono multiplicate le /c. 61v/ voci ricevute. Et, come dice Plinio, è stato da' greci detto echo per non haver campo da vagar liberamente, ma è dalla parte opposta ribattuta; et la piena et vera diffinitione che ne danno i naturali si è che echo altro non sia ch'una voce ripercossa da una concavità di luogo opposto, che non realmente, ma, come dicono i filosofi, intentionalmente ritorna la medesima in specie, ma per movimenti diversi. [295] Non si esaminaranno con le prove loro ciascuna delle parti di tal diffinitione per non parer questo il luogo suo; dirassi bene che simil suono d'echo si sente molto più forte alla campagna nella primavera che in qualunche altra stagion dell'anno, et la cagione per aventura potrebb'essere che la primavera sia più humida di tutte l'altre et perciò più atta l'aria in essa a ritenere i percuotimenti de' suoni che vi si facciano, non essendo il suono altro che quello che risulta, o nasce dalla percossa fatta nell'aria; o vero si sente l'echo maggiormente in tale stagione perciò che, uscendo simil voce, com'è detto, da' luoghi cavernosi, li quali, venendo in quel tempo turati dalle frondi novelle, più potenti al far resistenza che in altra parte dell'anno, il suono, che di tai luoghi ripercosso dee uscendo ritornar fuori, trova la strada e 'l passo /c. 62r/ più stretto per la spessezza delle foglie et viene a uscir più unito et per conseguente più vigoroso et a farsi più forte sentire. [296] Questo concetto fu ultimamente tra alcune altre leggiadre descrittioni della primavera dimostrato in alcune stanze con tai parole: Hor che rinuova dolcemente all'ombra i varii lai dì e notte Filomena et ogn'altro augelletto, u' fronde adombra limpida acqua cantando, i balli mena, et al concento ch'ogni duol ne sgombra Echo rinforza la sua antica pena. [297] Rendendo adunque echo le medesime voci, note, o suoni che senta ad altrui, nobile intelletto per certo è da stimar questo di sì fatto rivercio, fondato, come la maggior parte di tutti gl'altri di questa Ventura, sì come ragionevolmente richieggono simil concetti, sopra la materia d'amore, dove non par c'habbia dubbio alcuno che dar non si possa più vero et più notabil segno di sincero amore verso la cosa amata che mostrarsi ad ogn'hora in tutte le cagioni et in tutti i tempi di prender qualità dall'esser di lei, mestitia, o letitia ch'ella dimostri di sentire, et a ciò con le voci et con l'opere rispondere /c. 62v/ sempremai, et in breve mostrarti tutto in lei trasformato, sì come ciò per detto rivercio si rende pienamente palese. XXXI. [298] I lacedemoni dedicarono la statua di Venere armata per far manifesta la viril virtù delle donne loro, perciò che, essendo i lacedemoni venuti a gran battaglia co' messenii et non possendo sostener l'impeto di quelli et già cominciando col piegarsi a mettersi in fuga, le donne loro, di ciò fatte accorte, incontinente presero l'armi et, fatto sforzo contr'a' nimici, non solamente rimessero in piedi la già perduta schiera de' lor mariti, ma roppero ancora et messero in fuga i messenii, onde i lacedemoni, abbracciando le mogli loro armate, così come essi ancora erano, si congiunsero con sommo diletto insieme. Et così da indi innanzi cominciarono ad adorare Venere armata. XXXII. [299] Gli animi belli e generosi, che veramente col cuore alla lode et alla gloria aspirano, così cercano et si studiano d'impiegar l'ingegno et le /c. 63r/ forze loro ad opere grandi et rare, quantunque difficili, che non hanno cura niuna del danno che indi loro ne possa seguire, pur che si rendan certi che ne acquistino il desiato frutto di grido et di fama: la qual cosa si scuopre in Icaro quivi dipinto. XXXIII. [300] I già di sopra detti virtuosi giovani della Corte de' Ferraiuoli pochi giorni doppo a quello che dato havevano principio alla compagnia loro, dando una sera infra l'altre honesto et nobil trattenimento a forse trenta gentildonne, per ogni conditione delle prime della città di Siena, ridotte nell'antico palagio de' Cerretani, dove furono,«MDRV» habitatione de' gentilissimi messer Pietro et messer Girolamo Cerretani, due dell'honorato numero della predetta Corte, fra le altre sorti di belle et ingegnose inventioni che fecero comparir'avanti a quelle fu un Cupido, il quale, con estrema gratia cantando bellissime stanze, narrò che la chiara bellezza et la meravigliosa gratia di quelle gentildonne, sì come havea sempre di gioia et di letitia empite l'humane menti, così ancora havea colmate con le tre Gratie la dea Venere insieme. [301] Ma da poi che esse a segnali manifestissimi s'erano pur /c. 63v/ accorte dalle qualità d'esse rimaner vinte, deposta ogni ira et ogni sdegno contra di loro conceputo, erano quivi allhora venute a confessar liberamente che per ogni giusta cagione le predette gentildonne di gran lunga lor passavano avanti. Et per ferma certezza di ciò, lasciando tali dee gl'antichi regni loro, cedevano ad esse di quelli ogni in terra lor potestà, sì come a persone che n'erano assai vie più meritevoli. Et che esso Cupido, parimente, spezzando strali, rompendo lacci et ispegnendo facelle che portava in mano, insieme con quelle a far il medesimo humilmente se ne veniva. [302] Appresso a questo narrò sì come Giove, che teneva delle medesime donne somma cura, acciò che la di loro unica bellezza non venisse mai per tempo a mancare, anzi diventasse veramente immortale et che in niun conto di simili dee non fussero mai minori, havea proveduto loro d'arme contra ogni forza et impeto del tempo, onde non potesse mai esser distrutto quel vago e quel bello che così chiaro regnava in loro. Così presentarono a tutte le gentildonne che quivi si trovavano bellissimi vasetti pieni d'acque odoriferissime et di liquori preciosissimi, et questi havevano portato le dee dentro a bellissime canestre di vimi maestrevolmente intessute et dorate. /c. 64r/ XXXIIII. [303] Fra l'altre belle et notabili virtù che della natura del cane si ritruovano par che principalissima quella sia della fede et dell'amor suo. Per che Socrate nel Fedone giura per lo cane quando pensa che debba mantenersi et osservarsi la fede da coloro che ritengono il freno nelle cose della città. Alla qual fede essendo stata havuta non leggiera consideratione, fu preso il cane per significato dell'amicitia, nella quale tra le principalissime parti, per sentenza di tutti quei che ne parlano, si ricerca la fede. [304] Moltissimi sarebbono et chiarissimi gl'essempi che al presente si potrebbono addurre dell'amore et della fede del cane, di che gli scrittori hanno fatta degna et perpetua memoria, ma per non dover'hora empir un volume saremo contenti di toccarne alcuni pochi degni d'esser notati et avvertiti. Si fa mentione, tra gl'altri molti fedelissimi et amorevolissimi, d'un cane c'hebbe un certo Pirro, di tanta fedeltà verso il suo padrone che quando fu morto et posto sopra il rogo, o ver catasta delle legna accese ordinate all'abbruciamento dell'human corpo morto, subito fu dal suo cane seguitato, il quale messosi entro le fiamme volle pertinacissimamente morire. [305] D'un altro cane /c. 64v/ ancora si tien ragionamento che nella sepoltura di Teodoro saltatore volle rinchiudersi. E' ancora non meno celebrato quello d'Eupolide, poeta comico, detto Eugea, il quale, essendo morto et sepolto il caro et amato suo padrone, gravemente s'infermò et pel dolore del perduto padrone finalmente consumò la vita. Da che possiam dire che non sia punto inconsiderata la consideration di coloro che per il cane risguardante alcuna immagine od alcun corpo morto s'intenda la gratitudine de' ricevuti benefitii. XXXV. [306] Per nuovo miracolo si può rimirare in questo rivercio Minerva con esso Cupido insieme, sì come miracolosa cosa è ancora il vedere a' dì nostri menti di persone savie, gravi et prudenti che sentano di punto gentile et gratioso amore, o vero animi leggiadri et amorosi che dimostrino modestia, prudenza et accortezza et in somma che facciano una lega insieme simile a quella che ancora per queste figure si comprende, ferma et stabilita in questa Illustrissima et Eccellentissima Signora, della quale godon tutti i più belli valorosi et felici ingegni che oggi siano in Toscana, /c. 65r/ anzi in Italia, poscia che dal molto et grave sapere di essa restano tutti non ammirati ma stupefatti et dalle rare bellezze et accortissime maniere sue presi et indissolubilmente legati. [307] Ma il tacere di così rara et singolar donna, ricordandone solamente il bellissimo nome, fia in vece di mille lingue et di mille penne che di lei dire, o scriver potesser giamai, ancora che l'une et l'altre s'agguagliassero quasi a quella ond'essa così gratiosamente parla et sì altamente ancora scrive. XXXVI. [308] Non è maraviglia s'il fuoco, che per sua propria natura si muove sempre in su, è preso non di rado a significar cosa nobile, alta et degna; et ancora perciò che da se medesimo è molto attivo, o vero operativo, anzi più di niun'altro elemento, sì come affermano i naturali. Di qui è che le cose che resistono contra la gran forza di quello per buone et perfettte si ricevono, sì come evidentemente si conferma per l'oro stato nella fornace ardente, il quale dentro a quella separandosi da tutte l'altre mescolanze più grosse et terrestri ch'in lui si ritruovino, et quelle distrutte, rimane tutto nella sua vera natura /c. 65v/ bello, lucido et fino. [309] Perciò i nobili intelletti hanno detto che, volendo Ercole liberarsi del tutto dagl'effetti mortali et dispogliarsi de' terreni pensieri per vestirsi de' divini et celesti, compose a se medesimo una catasta di legna nel monte Oeta, sopra la quale tutta accesa ei si pose per dividere et ispartire dal corpo caduco et frale l'animo immortale et sempiterno et indi, scarico et leggiere, sicuramente salir'«MDRV»al cielo. [310] Questo medesimo concetto dell'Ercole sopra le fiamme non ha dubbio che non fosse tolto già più anni son passati da' famosissimi Academici Infiammati per impresa dell'Accademia loro, se perciò ella merita il nome di legittima impresa. Ma gl'ingegnosi Cortigiani Ferrai(u)oli hanno ben potuto senza scropolo di coscienza questa volta levarlo dal medesimo fonte et luogo comune che quelli (questo è dalla favola nota et vulgata) et molto più a proposito farsene rivercio di medaglia, la quale per più et diverse essentiali cagioni è diversa et differente dalla natura dell'impresa. Et ciò possono molto ben sapere tutt'i belli spiriti che della profession dell'imprese et di quella delle medaglie si dilettano, et dove ancora vanno ponendo alcuna opera et studio loro. [311] Che di poi Amore /c. 66r/ figuratoci quasi sempre per fuoco et fiamma sia per sua natura di tal virtù che separi et disgiunga le voglie brutte basse et del tutto carnali che surgono et crescono nell'huomo dalle belle alte et spirituali, lo lasciarò anco considerare et narrare a tutti coloro che, nelle fiamme d'honestissimo et altissimo amore tenendo il cuore, sentono ogni giorno maggiormente che, quanto esso più per quelle si vada consumando, tanto più fino et più perfetto si renda. Et di questi beni creder si può che colui a cui è dal Fato stato fatto dono del presente rivercio sia de' primi, sì come d'una cotanto honorata Corte è primo et Principe in questi giorni. XXXVII. [312] Riconoscevano di maniera gl'antichi la deità della Fortuna tra l'altre loro et a quella cotanto attribuivano, che la tenevano et reputavano quasi per arbitra et disponitrice di tutti gl'affari humani et di tutte l'operationi del mondo, onde le dirizzavano la statua col temone nella destra et il corno della dovitia nella sinistra, et per quella intendevano il governo et la signoria, et per questo l'abbondanza delle cose utili al viver de' mortali. Onde /c. 66v/ chiamavano le lor facoltà et ricchezze fortune, quasi beni venuti dalla mano della Fortuna. [313] A questa, secondo i varii concetti et desiderii loro, dedicavano statue et immagini. Tal che ne drizzarono una anche alla Fortuna reduce, come dicevano essi, acciò che benigna et favorevol fosse al ritorno di persona amata, grande et meritevole. Et questo potrà apparir manifesto a chiunque sarà in piacer di riguardar la medaglia d'Adriano Impera(t)ore, dove è posta la Fortuna con un temone in mano a seder sopr'una palla. Et quella ancora di Settimio Geta, dove si trova scolpita col temone et col cornucopia, battute tutte in gratia della tornata de' detti grandi huomini. XXXVIII. [314] Il medesimo parimente si potrà dire della favola di Sisifo, condennato a portar'et ispinger su al monte il grave sasso, propostaci hora dinanzi, che di sopra fu detto di quella di Titio. XXXVIIII. [315] La colonna fu inditio di fermezza et di costanza et d'egregie operationi, /c. 67r/ ancor diede segno et fu tenuta in così fatta stima et consideratione dagl'antichi che colui era sopra gl'altri mortali riputato glorioso al cui nome fossero state drizzate et dedicate colonne. Di qui Ennio disse quelle parole di Scipione: "Quantam statuam faciet Populus Romanus, quantam columnam, quam res tuas gestas loquatur"; "Che statue così degne potrà far'il Popul Romano, et che altra colonna la qual narri l'opere che da te sono state fatte?" XL. [316] Sono stati ne' tempi nostri alcuni spiritosi ingegni et di approvata autorità li quali, essendo da gravi et aspri colpi di fortuna percossi, et tuttavia contr'a quelli con animosa franchezza et serenità d'animo resistendo, figurarono il dispregimento della fortuna avversa per un huomo posto in naufragio, il quale in mezzo all'onde orgogliose del mare stesse appoggiato sopra una testuggine marina, aggiunto a questo un raggio del sole scoperto, mercé del quale non era nell'acque sommerso. XXXXI. /c. 67v/ [317] La figura del presente rivercio è quella del Feciale de' romani, il quale, secondo l'usato costume di essi, con un'hasta ferrata in mano, et alquanto abbrustita, andava a' confini de' nimici, et quivi quella lanciata essendovi tre fanciulli presenti, et espostane in prima la cagione, s'intendeva per significata et publicata giustamente la guerra et di già esser' incominciata. [318] Per che Virgilio: Turnus primus iaculum intorquens emittit in auras, Principium pugnae. Et noi potremmo dire: Turno primiero in aria l'asta manda, della battaglia giusto, alto principio. XLII. [319] Questo Tantalo in mezzo a' pomi et all'acque che di fame et di sete si muore altro in questo luogo non par che vogli significare ch'uno d'ogni parte scambievol amore, il quale con tutto ciò sia quasi impossibile condurre al desiato effetto. XLIII. [320] La medesima sera ch'i Cortigiani Ferrai(u)oli con i trattenimenti di sopra in parte /c. 68r/ raccontati alle predette gentildonne, condussero ancora dinanzi a quelle il Tempo, rappresentato sì come conviensi per esprimere la natura di lui, non con minor pompa in vero che leggiadria, a cui poco appresso seguivano le quattro Stagioni dell'anno così vagamente et riccamente come tutte propriamente vestite. [321] Il Tempo, rivoltato verso le donne, con alcuni colti et leggiadri versi disse che egli, il qual tutte le cose che sono sotto il cielo va consumando et di quanto ha nel mondo è padrone et signore, poi ch'intendeva et vedeva che niuna sua forza non poteva spegner il lume de' lor begl'occhi, né mutar«MDRV» il colore de' lor leggiadrissimi volti, veniva lietamente a sottoporsi all'alto imperio di quelle prima che esso per così strano fatto si trovasse da loro superato et vinto. [322] Dette queste cose, fece dono alle donne d'oriuoli, di specchi et di libri. Le Stagioni dell'anno, appresso, dolcemente cantando, in musica l'esser loro mostrarono alle donne che con ogni humiltà et riverenza erano venute a render loro debito homaggio. Et in segno di questo vero loro affetto interno havevan portato ciascuna di quelle più dilettevoli et più pregiate cose che producono i regni loro. [323] Onde la Primavera portò a tutte le donne quivi presenti diverse sorte di /c. 68v/ vaghi fiori in mazzetti di seta et d'oro leggiadramente composti. La State bellissime spighe di seta verde et d'oro et pomi statarecci di zuccaro et molto vicini a' naturali. L'Autunno recò uve et altri de' frutti autunnali composti di profumo et di zuccaro, non manco buoni a gustare che belli fossero a vedere. Il Verno, finalmente, presentò falde di zuccaro finissimo in cambio di neve, pezzi di zuccar candio in vece di giaccio et confetti papali in luogo di grandine. XLIIII. [324] Quanta sia la forza ch'in sé ritenga l'ornato et facondo parlar nell'huomo, altra carta in vero bisognerebbe che questa brieve, dove hora appena s'accennano, non che si spieghino pienamente le cose, et di altra penna molto più farebbe mestieri di questa debole et rozza scrivente per dover dirne le lodi almeno in qualche parte. Poscia che delle parole d'huomini savi stati et facondi nel dire si truova scritto c'havevano forza et virtù di fermar i cieli, di muover le pietre, gl'alberi et i monti et d'arrestar i correnti fiumi. [325] Ma in amore quanto vaglia l'accorto et gratioso favellare per muovere /c. 69r/ et piegar i duri et ostinati cuori altrui, oltr'a le moltissime cose che legger degnamente se ne possono, bastine et per hora n'appaghi quello solamente che ne scrive il gran maestro d'amore: Non formosus erat, sed erat facundus Ulysses, et tamen aequoreas torsit amare deas. In nostra lingua: Bello non fu, ma ben facondo Ulisse, pur ad amar le dee piegò del mare. XLV. [326] Lo scettro, sì come arnese et insegna reale, è stato preso anticamente per significatione di regno et d'imperio et l'arbor della quercia per dimostratione d'utilità et di giovamento, onde si truova che la fermezza et stabilità dell'imperio era dimostrata per lo scettro avvolto d'un ramo di quercia. [327] In Viterbo si può per chi vuole vedere ancora in una colonna d'alabastro uno scettro con le foglie di quercia, li cui rami sono da basso tagliati et quelli d'alto così intessuti insieme che rappresentano la figura d'un occhio. Riferiscono chiari autori che così fatti scettri erano talhora di più rami ornati secondo che più erano le provincie alle quali signoreggiasse colui in honor del quale /c. 69v/ tale ornamento fosse stato dedicato. [328] La quercia, oltr'a quello che comunemente se ne parla, che fosse arbore consegrato a Giove, dio de' regni et degl'imperi, era dedicato ancor a Rhea, che è la Terra, sì come afferma Apollodoro nel III degli dei, et tutti quelli ancora dice esser coronati di quercia per l'utilità che simil pianta apportò a' mortali tanto nell'uso degl'edifitii, quanto del viver ne' primi tempi del mondo. [329] Et ben fermo, stabile et santo si dee stimar quello imperio che solamente a giovare et benificar i suoi soggetti si vede ogn'hora disposto. Et durabile anche in amare, et degna veramente della sua monarchia, è quella imperial potestà che persona giamai sopr'altra ritenga ogni volta che solo in salute et benefitio di quella l'usi et la spenda. XLVI. [330] La donna legata allo scoglio rappresentataci in questa figura è Andromeda; l'huomo è Perseo, che, superata et vinta l'orca marina, rimane prigione et vinto dalle bellezze di tal donna. Non possono le forze della bellezza entrar'in comparatione con veruna sorte di forza humana, perciò non vi ha tra quelle similitudine, /c. 70r/ né proportione alcuna, ché la bellezza ignuda sola, legata et mutola quello opera che molte persone armate, libere et sciolte et eloquenti non havran poter di far giamai, anzi supera per sua natura tutti i più forti et più potenti che mai si trovino. [331] Et la bellezza di Briseide et della femminella ch'in Puglia prese et legò il figliuolo d'Amilcare ne fa certa et ampia fede, con quella di mille altre donne di cui si leggono piene tutta via le carte così de' nostri come degl'antichi tempi. XLVII. [332] Era significata l'Eternità dagl'antichi per una donna che tenesse nelle mani i maggiori et più splendenti lumi di che notte et giorno tutto il globo del cielo è ornato, giudicando quelli ch'il sole et la luna fossero come perpetui elementi delle cose, generando essi con la propria virtù loro, conservando et perpetuando tutte le cose che sono in questo mondo da basso. Et benché la luna manchi così spesso del suo lume, come da noi si vede, era pur tutta via presa da' gentili in signi/c. 70v/ficato dell'Eternità. Poscia che quando par ch'ella sia mancata, ella si rifà di nuovo, et molto spesso in tutto 'l giro dell'anno ringiovenisce, onde Oratio, lamentandosi della brevità della vita humana: "Suoi danni rifà pure in ciel la luna". XLVIII. [333] Il pesce è così preso da ognuno per il silentio e taciturnità, che indi s'è tratto l'antico proverbio "Più cheto de' pesci". Per che sono stati quelli da alcuni infin reputati compagni et domestici di Pitagora, padre si può dir del vero silentio, essendo stato quello da lui cotanto commendato et osservato. Il velo aggiunto al pesce è posto a maggior dichiaratione della predetta natura di quello. Quanto in amor sia cosa dicevole il silentio, meglio sarà con silentio passarne hora che, parlandone, non ne poter dir mai appieno, ancor che non sia veruno che non habbia sempre in bocca la segretezza ch'in amor si convenga. Pur conviene che a guisa del pesce l'opera vi si conformi. [334] Ma potrebbe forse non di leggieri cader nella mente di alcuno svegliato spirito come possono star bene insieme queste due qualità contrarie in amore, et questo /c. 71r/ è che egli sia dipinto tutto nudo, il che denota, come ognun sa, libero, aperto et palese, et hora gli sia posto in mano il pesce velato che significa (come s'è detto) silentio et chetezza. Et pure il sentimento di questa medaglia par certamente che voglia manifestare doversi, o potersi trovar'in amore l'un'e l'altra delle dette parti. Non crederei io che questo dubbio si potesse discioglier'hora con quel tanto comune et tanto noto privilegio degl'amanti: "Sciolti da tutte qualitati humane". XLIX. [335] Era dagl'antichi tenuta in tanta stima et veneratione l'opera del matrimonio, che non lasciavano parte niuna di quello sì che con qualche bella forma et nobil sentimento non la rappresentassero. Per che, mandando essi la sposa a casa del marito, havevano in usanza che la madre propria di quella, o d'altra più congiunta in parentado si prendesse la sposa in grembo, aspettando che i mandati dello sposo la venissero indi a torre, li quali poi quasi a forza la strappavano dal grembo et dalle braccia della detta donna. [336] Ciò veniva fatto dagl'antichi acciò /c. 71v/ dimostrassero che, dovendo la giovane lassar la casa de' parenti per andar in quelle dove perder dovea cosa tanto pregiata et cara quanto è la virginità, ella non desse a divedere d'andarvi di proprio animo et spontanea volontà, ma sì bene contra sua voglia et per forza. L. [337] Filostrato, greco scrittore, dice ch'i cigni allhora cantano con maggior dolcezza quando dal fiato di Zeffiro par che a ciò siano invitati. Eliano ancora scrive che essi non cantano mai se non allhora che Zeffiro spira. Chiunque ancora volesse attissimamente descrivere, o dipingere la musica non potrebbe altra figura prender più propria di quella ch'il predetto filosofo con parole ne pone avanti agl'occhi, dicendo che de' cigni, quelli che sono di maggior et miglior voce, fermati in riva del fiume, quasi in cerchio si pongono, dove non senza certo contrasto et gareggiamento fra loro mandan fuore non so che tuono et concento arguto di canto et d'armonia. [338] Il segno et la figura della cantilena si può scorgere per un fanciullino alato, che è il vento /c. 72r/ Zeffiro, però che questi, spirando, dà et dona a' cigni il canto. Si dipinge cotal fanciullo tenero et dilicato, qual è il fiato di quello da noi così volentieri sentito per l'anno et ricevuto. Le piume de' cigni parimente al detto fiato et spiramento si sollevano alquanto, essendo dal percuotimento di quello commosse. LI. [339] La fama è detta buona et rea, o vero è delle cose che buone et cattive sono. Et delle buone ancora è maggiore et minore secondo il valor di quelle. Quando si voleva dagl'antichi mostrare alcuna attione, o persona esser di fama et di nome non solamente buono et chiaro, ma ottimo et chiarissimo, dicevano che la fama di colui con ali bianche volava. Questo era ch'in sé non ritenesse macchia, o neo di sorte niuna, ma per tutta la vita et costumi et operation sue fusse puro, ingegnoso, candido et leale. [340] La bella fama et honorata della donna che meritato ha il presente rivercio di medaglia merita ancora d'andar spiegando il suo volo per le bocche di più chiari et eloquenti spiriti che sieno in questa età, sì come è meritevole d'essere stata alquanto spiegata in carte poste appresso a quelle dell'ornatissima oratione di messer Bartolo(m)eo Carli /c. 72v/ Piccolomini, composta in lode del glorioso S. Giovan Battista, a lei dedicata, et per altre opere simili ancora si dee tener per costante ch'ella debba venir tuttavia per chiarissimi suoi meriti lodata et essaltata. LII. [341] Quella che si vede hora armata in atto di combattere contra Amore è la Gloria, la qual di rado in nobili cuori giovenili si ritruova che far non le convenga asprissime battaglie per discacciarne del tutto Amore, o almeno rimanergli in qualche parte superiore, quantunque spesse volte le avvenga il contrario. LIII. [342] Il giuditio di Paride verso le tre dee si dà così bene a conoscere per se medesimo, che non ha bisogno dell'opera d'alcuno per rendersi noto altrui, o , dichiarandosi, il suo concetto, o sentimento. LIIII. [343] Il leone è preso per le forze del corpo, la volpe per quelle dell' /c. 73r/ ingegno, onde fu dettato d'un lacedemone che quando a coprire, o fornir una cosa nostra la pelle del leone non ci basta, di quella della volpe ci valessimo, supplendo a quanto manca; et tanto basti hora dirne. LV. [344] Havendo in costume i romani d'usare per loro spose novelle in vece del dirizzacrine un'hasta ferrata, questo era per renderle avvertite che, essendo congiunte con persona forte et valorosa, non conveniva guidar la vita loro in delicatezze et vanità femminili. LVI. [345] A similitudine de' capitani romani si vede esser stato fatto simil rivercio, li quali erano consueti ed obligati di giurar fedeltà nelle mani del loro impera(t)ore. LVII. [346] L'huomo qui dipinto sopra la torre, che lieto mostra di mirar l'in/c. 73v/cendio d'una città, accenna l'atto del crudel Nerone quando fece metter il fuoco in più parti di Roma per rappresentarsi avanti agl'occhi in effetto quale stato fosse l'abbrusciamento di Troia con parole di Vergilio descritto. LVIII. [347] Un monte con le fiamme circondato da un fiume, figurato nell'altra parte di questa medaglia, ci scuopre che un contrario non si lascia vincere, o suprar dall'altro di pari et uguali forze, ma più tosto prendono insiememente l'un per l'altro maggior vigore. LVIIII. [348] Le mani, appresso i sacerdoti d'Egitto, erano in significamento d'attioni et d'operationi, conciosia cosa che di quelle si vagliano le persone quasi in tutte l'opere che nella vita humana sono necessarie. Da quelli che davano opera a' sogni era stato osservato che 'l rappresentarsi ad altrui dormendo le mani, e massimamente belle, era segno et augurio che a colui dovessero succeder felicemente tutte l'imprese sue. Atanasio dice che all'huomo sono state date le mani et per /c. 74r/ servigio delle cose a lui necessarie et perché, porgendo preghi a Dio, le innalzi al cielo. Aristotele disse la mano essere instrumento di tutti gl'instrumenti. [349] Per le mani ancora, prese metaforicamente, si possono intendere le forze dell'ingegno, sì come s'intende per quelle la potenza del potentissimo Iddio, là dove è scritto: "Extendisti manum tuam super nos, Deus, et salvos nos fecit dextera tua". Questo vuol dire: "Distendesti, Signore, sopra noi la tua forte mano, et quella ci ha renduti salvi". LX. [350] La dipintura di questa medaglia ne riduce alla memoria la riguardevol usanza che teneva Alessandro il Magno in divider et trapassar«MDRV» il tempo della sua vita, il quale, havendo sempre l'animo desto et pronto alle cure et a' governi grandi di tutto 'l suo regno, era usato, quando si poneva sopra 'l letto per ricreare alquanto col sonno le stanche membra, di prender'una palla d'argento in mano et di tener con quella il braccio fuor del letto sopra un baccino d'ottone, acciò che, quando ei si fosse addormentato, il sonno non pigliasse di maniera le forze sue sopr'a lui che non lo lasciasse signore di se medesimo, ma che quando pel sonno /c. 74v/ i sentimenti quasi abbandonassero le membra, uscendoli la detta palla di mano, cadesse con percossa et rumore tale che di subbito lo svegliasse dal sonno et lo richiamasse alle consuete faccende et gravi imprese ove continuamente teneva la mente impiegata. LXI. [351] Infra l'altre corone militari che i romani havevan ordinate in segno d'honore a' loro valorosi capitani et soldati, fu quella composta di gramigna, quale è questa che veggiamo hora in quest'altro rivercio, la quale erano usati di dar'in premio del lor valore a coloro c'havessero liberata dall'assedio de' nimici alcuna città, o vero da quello si fussero renduti salvi et sicuri. L'ordinarono di gramigna acciò fusse intessuta di quello che nascer potesse dentro al luogo dove fossero stati rinchiusi gl'assediati. LXII. [352] L'imprese grandi pur che possano recar con seco honor'et gloria, non ispaventan mai gl'animi delle persone prodi et generose, riguardando sempre in quello che fu detto: "Di cui se regger ben non /c. 75r/ seppe il freno / da bello et alto ardir venne pur meno". LXIII. [353] E' ricercato da' bell'ingegni per qual cagione Fidia, eccellentissimo scultore, fabricando agl'elei la statua di Venere d'oro et d'avorio, le ponesse appresso la testuggine calcata col destro piede della dea. Ma communemente per gl'intendenti si crede che con somma prudenza quell'huomo avvertir ne volesse che le donne vergini deono esser tenute con molta custodia et le maritate haver cura delle cose famigliari della casa et nel parlar«MDRV» esser parche. [354] Il che è detto per ammaestramento ancora da Plutarco là dove tratta di quello che intorno alle cose della moglie et del marito sia convenevole, dicendo che alle donne fa di mestieri esser di natura diversa da quella della luna, la quale quando lontana si truova dal sole si scorge lucida et chiara, quando poi a quello s'avvicina et sotto gli si pone sparisce ogni suo lume et isplendore. Ma la modesta et prudente donna al contrario dee operare, lasciandosi veder dagl'altri solamente presente il marito suo, et quello stante lontano da lei doversi dar da fare nella casa et in quella celarsi. [355] Costumarono le donne /c. 75v/ anticamente portar'immagini di testuggini dedicat'a Venere. Et ciò si renda manifesto per la testimonianza che ne fanno le donne in Tessaglia, dalle quali con le testuggini di legno fu ammazzata quella cotanto nominata Lidia meretrice, mosse et sospinte da fierissima gelosia che per cagion di lei sentivano de' lor mariti. LXIIII. [356] Se fu da numerare infra le faticose fatiche d'Ercole quella ch'ei fece del tirar fuor dell'inferno il feroce et spaventevol mostro di Cerbero descrittone da' poeti, non minor opera in vero si è il tirar ad amorose voglie animi per natura in tutto a quelli nimici et rubelli, et ciò ben si sa da colui che lo 'ntende per prova. LXV. [357] Si vedevano già nel Campidoglio in Roma davanti alla cappella di Minerva, come riferiscono degni scrittori, tre statue, o figure, le quali sopra le ginocchia loro si stavano appoggiate. Furon chiamati Nixidici per esser reputate quelle deità soprastanti et favorevoli alle donne ne' dolori et nelle gravi pene che sentono nel par/c. 76r/torire. Sono alcuni che vogliono tali figure essere state portate a Roma da Marco Attilio, poi che hebbe superato Antiocho re della Siria. Altri dicono che doppo la presura di Corinto. LXVI. [358] La rosa con le spine insieme, mostrataci in questa presente figura, tiene significamento di bene che da male sia accompagnato. Quasi n'ammonisca che tutti i piaceri et le dolcezze di questo mondo sieno sparse di qualche amaritudine, et che perciò non è cosa punto agevole il saper dalle cose ch'advengono altrui pigliar di maniera tutto quello ch'in sé ritengono di bene et di diletto, che non si senta punto del male et dell'incommodo che di natura va loro appresso. LXVII. [359] I medesimi sopranominati Cortigiani Ferrai(u)oli nel medesimo sopradetto trattenimento introdussero ancora la Fama per guida delle Ninfe di tutt'et sette i Cori di quelle, da cui in alcune leggiadrissime ottave rime fu sposto alle gentildonne ivi presenti che ella non riconosceva per tanto dono a lei da' fati conceduto che mercé sua s'oda in ogni parte il grido /c. 76v/ di tutto ciò che sia degno di memoria nel mondo, et che ancora vivano per lei coloro che già mill'anni son sepolti sotterra, quanto veramente l'havere nella lor presenza condotte quelle dee, perciò che (diceva ella), quantunque fosse pervenuto all'orecchie di quelle il nome et la fama chiara delle bellezze singolari di tali donne et perciò dovessero lasciarsi spinger'a contemplarle et riverirle, tuttavia il conoscersi elle di tal beltà che non teme il corso de' cieli, né 'l variar del tempo, faceva sì che lor non paresse che veruna fosse di esse donne d'agguagliarsi a loro. [360] Ma poscia che havevano inteso da Giove proprio essere stato lor proveduto di remedio tale che perpetue rendeva et immortali le lor bellezze, et oltr'a ciò che 'l Tempo stesso ancora s'era lor sottoposto, haveva con somma letitia ciascuna di esse lasciati i suoi fonti, gl'alberi, i fiumi, il mare, i prati, i boschi, e' monti et era venuta dietro a la voce di lei per render loro ogni sorte d'alti et meritati honori et per servirle come maggiori dee et insieme insieme offerir loro de' lor presenti et de' doni. [361] Così ciascuna delle dette Ninfe, finite le parole e 'l canto della Fama, portò a presentare a le nobil donne di quella sorte di cose c'haveva più belle et migliori sotto la sua potestà et /c. 77r/ giurisditione, vestite parimente in habito tutt'alla deità loro convenevole et con somma leggiadria et maestria ornate. LXVIII. [362] Non è al mondo animale niuno d'impietà, di fierezza, né di crudeltà tanto simile a quella delle crudelissime tigri, dipinte nella medaglia che hora habbiamo in mano tiranti il carro d'Amore, che tardi, o per tempo, poco, o molto non senta sopra sé qual sieno le forze di quello et ch'al fine a lui cedendo et al suo peso soggiacendo, humil, benigno et mansueto non si renda. LXIX. [363] Si dimostra per Venere trionfante la somma et invincibil potenza d'amore: in cielo, per Giove con l'aquila, in terra, per il satiro col leone, in inferno, per Plutone con Cerbero. Ché in tutti questi luoghi cantarono i poeti quello haver dimostrate le forze sue, soggiogando al suo imperio tutti coloro che qui secondo quelli regnavano. LXX. /c. 77v/ [364] Prezzavano tanto il dignissimo legame dell'amicitia i populi della Scitia, che infin col sangue proprio lo stringevano infra di loro. Appo i quali si costumava, qualhora due persone volevano congiugnersi et insieme unirsi con vera famigliarità et santa amicitia, di forarsi amendue le vene et di versar'il sangue in un vaso, dentro al quale intignevano appresso un'asta ferrata per ciascuno in segno della conventione et del patto loro. LXXI. [365] Non si dirà hora che la voce Urania venga da quella che nella lingua greca significa celeste, et che a tal significato si possa comprendere che accenni la forma della sfera material del cielo figurata nell'altra parte della presente medaglia. Né si farà mentione ch'una delle nove Muse fosse appellata Urania, et ch'ella sia presa per la facoltà dell'astrologia, et come et quanto ancora essa della poesia faccia a proposito. [366] Né meno si farà parola niuna in dimostrar con quanta ragionevole speranza fosse imposto il predetto nome alla donna veramente più celeste che terrena per cui dal Fato fu segnato /c. 78r/ questo rivercio, lasciando tutte queste cose particolarmente intender'appieno a chiunque di lei habbia mai, o per veduta, o per fama, vera et certa conoscenza. LXXII. [367] Sono le presenti figure segni di religione così della falsa de' pagani, come anche della verissima nostra cattolica christiana, perciò che v'è il lituo detto da' nostri pastorale, l'acerra, appresso noi turribile, et la mitria, oggi chiamato il regno papale, supremo ornamento et corona del capo della Chiesa de' christiani. [368] Della mitria si vede che 'ntende la parola del motto di questa medaglia glorioso regno, sì come più con l'opere che col desiderio s'ingegna ad ogni suo potere d'esser, come altri del suo ottimo lignaggio, in tutto meritevole colui ad honor del quale è stato dalla fatal providenza quella figurata. LXXIII. [369] Chiunque è mai entrato nella strada d'amore, né si lascia velare gl'occhi da' bassi pensieri et dalle smoderate passioni dell'anima /c. 78v/ per dritto sentiero agevolmente si condurrà al nobil regno della virtù. LXXIIII. [370] Che 'l ginocchio piegato segno sia d'humiltà et dia inditio di riconoscer'altrui superiore, non credo ch'a niuno sia oscuro. Nelle divine lettere: "Mi restano settemila persone, che non hanno piegato il ginocchio a Baala". Et altrove: "Io piego il ginocchio del mio cuore", et altre simili per isprimere et significare humiltà. LXXV. [371] Cornelia, madre de' due famosi Gracchi, fu donna di cotanto valore in Roma, per molte parti et virtù in lei nobilissime, che 'l Senato (cosa verissima per antiche memorie) le dedicò una statua publica. Il caduceo, che questa nostra tiene in mano, denota l'eloquenza, di che ella fu maravigliosamente ornata, la quale eloquenza fu appieno ne' due suoi figliuoli riconosciuta, huomini de' lor tempi eloquentissimi, a' quali essa madre et maestra havea le /c. 79r/ buone lettere insegnate. LXXVI. [372] Il cappello fu significatione della libertà nel tempo de' romani, sì come per più mezzi ciascuno se ne può certificare. Molte medaglie hoggi si truovano dove è scolpito il cappello col motto della libertà, qual è quello di Tito Claudio, dove è una figura che, tenendo la sinistra insieme col braccio distesa, nella destra ha un cappello col motto: LIBERTAS AVGVSTA. In quella d'Antonino ha nella dritta un cappello, nella sinistra un'asta. Il motto: LIBERTAS COS. IIII. Appo gl'istorici si legge i servi essere stati talhora chiamati al cappello, cioè fatti liberi. Et appo il comico poeta: "Dio voglia, che hoggi col capo raso pigliar'io possa il cappello", cioè mi sia donata la libertà. [373] Questa, quanto naturalmente sia da tutte le spetie degl'animali amata et cercata, sarebbe opera perduta il volervi spendere alcune parole. Hora ben si può far giuditio di qual sorte sia quella servitù, della libertà fierissima avversaria, la quale più del viver libero è havuta in pregio, /c. 79v/ anzi che per lei desiderato è di perder la vita libera. Et questo pare il vero sentimento che ne scuopre il rivercio della medaglia c'habbiamo hora alle mani. LXXVII. [374] Questo tempio è quello della Pudicitia, ch'era anticamente in Roma, ritratto dalla pianta che n'ha lasciata in disegno [...], celebre autore, dicendo esso: "Nella figura della città, seguendo la comune oppinione, v'habbiamo posto questo tempio della Pudicitia, la cui lunghezza è di piedi cinquantasei et la larghezza di ventisei". LXXVIII. [375] Tutto quello che di sopra fu toccato nel rivercio di Mercurio che tien per mano Cupido, della forza et virtù che 'n sé ritenga il facondo et accorto parlare per guadagnarsi l'animo, l'amore et la gratia altrui, si potrebbe ancora addurre agevolmente con altre cose appresso in proposito del presente rivercio d'Anfione, quale è quello quivi dipinto con la lira /c. 80r/ in mano, che al dolce suono della sua arguta cetera edificò (come si legge) le mura della città di Tebe. [376] Ma bastine, aggiugnendo, accennare il vigore che molto più grande ancora si manifesta nell'ornate parole che con dolci numeri et armonia son composte, et con dolce et suave voce appresso cantate. Le quali chi non sa che di piegare et di smuovere hanno potere ogni quantunque indurato, o selvaggio cuore? Donde struggendo ogni ghiaccio che mai l'havesse congelato, hanno forza di accendervi dentro un caro et lieto fuoco d'amore. [377] Non è sì duro cuore che lacrimando, pregando, amando talhor non si muova; ma non m'è conceduto hora luogo di dover mostrar pur'in qualche parte gl'effetti belli, nuovi et grandi che cagioni ne' cuori delle persone il gratioso et prudente parlare, et i miracoli che 'n amor discuoprono spesse volte l'ornate prose, i vaghi versi et le leggiadre rime, quali non ha contrasto essere per ogni parte quelle et queste di colui, al quale del detto rivercio è stato fatto dignissimo dono. LXXIX. [378] Fu detto intorno al rivercio dell'albero guardato dal dragone /c. 80v/ che questo animale era stato consegnato per custodia delle cose ricche et di pregio, il che può valere ancora a quanto fa in proposito della presente medaglia, che ci scuopre innanzi un vaso, od una cassa da tener conservati i tesori: ché alla guardia parimente di questi si truova il medesimo dragone essere stato proposto. LXXX. [379] Fu edificato in Roma da Marco Marcello il tempio dell'Honore avanti a quello della Virtù, di maniera ch'a volervi pervenire bisognava in prima per quello della Virtù passare. Questo voleva dire che senza la scorta della Virtù non si può giamai alcun condurre ad operation niuna honorata. [380] Ch'Amore ancora guidi gl'animi belli et gentili ad imprese alte et d'honore, è manifesto per molti honoratissimi spiriti, et più d'ogn'altro lo manifesta il vero seguace d'Amore messer Francesco Petrarca con chiarissime voci dentro il suo celeste Canzoniere in più et diversi luoghi, sì come a chi lo legge et lo avvertisce divien manifesto. /c. 81r/ LXXXI. [381] Ogni bella et lodevole attione merita sempre d'esser con qualche notabil segno riconosciuta, ma infra tutte l'altre quella d'honestissimo amore, il quale d'ogni più honorata palma certamente è dignissimo. LXXXII. [382] La virtù bisogna che discuopra sempre in qualunche luogo il suo splendore infin nel primo principio del nascer suo. Et quantunque allhora si dimostri di piccola luce, tuttavia (come disse quel gran poeta): "Poca favilla gran fiamma seconda". LXXXIII. [383] Quella veramente è vera pace che da niuna banda teme d'esser turbata, per qual si voglia accidente ogn'hora franca et sicura. L'armi significano sicurezza nella presente figura, pace l'ulivo, honestà i topatii e ' diamanti, ché per honestà et pudicitia furon prese queste pretiose pietre dal Petrarca: "A la qual d'una in mezzo Lethe infusa / catena di diamanti e di topatii / che s'usò fra le donne, hoggi non s'usa". /c. 81v/ LXXXIIII. [384] La favola delle figliuole di Danao n'è ricordata per la presente pittura. Le quali, per il grave fallo commesso d'ammazzar'in letto i lor mariti, furono (come scrivono i poeti) condannate all'inferno a portar'acqua in vasi senza fondo, o vero in crivelli da grano, come vogliono alcuni. LXXXV. [385] Si ritruova appresso gl'ebrei che per un paio di tortore era significata da loro la pudicitia. Et il gran Basilio riferisce che nella circoncisione appo quelli era in costume d'offerir'un paio di tortore, o di colombe, sì come appare ancora per la scrittura evangelica. Et ciò era per inditio di pudicitia et per esempio di vita continente. [386] Origene ancora lasciò scritto che allhora noi offeriamo in dono a Dio un paio di tortorelle quando noi congiugnamo col verbo di Dio, quasi a vero consorte, la nostra mente, sì come si narra che sì fatta spetie d'ucelli è consueta di tenere et di preservar sempre pudico et casto il suo congiugnimento. Le divine lettere intendono ancora per la tortorella qualunche anima che di /c. 82r/ castità sia ornata. LXXXVI. [387] Non è punto minor fatica ed opera smorzar'affatto gli sdegni et quietar del tutto l'ire ch'ad ogn'hora par che nascano in amore, che fosse quella d'Ercole mostrataci hora in questo luogo in recider le teste dell'idra, che tagliatane una ne surgevano indi sempre molte di nuovo. Poscia che fra gl'amanti nata una volta qualche cagione d'ira, o di sdegno, molte et molt'altre appresso par che ne nascano prima che a quella si possa imporre l'ultimo fine. LXXXVII. [388] Fu costume negl'antichi tempi di scrivere et d'intagliare negli scudi da guerra i fatti grandi et memorevoli; et coloro che non havessero ancora operata cosa egregia et forte usavano di portar lo scudo tutto puro et bianco, per descrivervi poi i fatti loro degni di memoria. Erano donati sì fatti scudi dagl'impera(t)ori per segno d'honore a' lor soldati et agli dei ancora, onde si legge non rade volte appo Tito Livio essere stati donati a' tempii et consegrati agl'iddii scudi /c. 82v/ d'argento. LXXXVIII. [389] Era già in Egira città dell'Achaia la statua della Fortuna col cornucopia, appresso la quale sedeva Amore alato; il che era per darne inditio che la fortuna non ha manco potere et luogo nelle cose amorose ch'in molt'altre humane. LXXXIX. [390] Certissima cosa è il serpente prendersi per la prudenza. Per che il divino avvertimento: "Siate prudenti come serpenti et puri come colombe". Cose che non così ad ogn'hora, né in ogni persona si ritruovano insieme congiunte. LXXXX. [391] Par che la parte di poi della presente medaglia voglia inferire l'uffitio del Grand'Ammiraglio, che debba tosto, con la sua inclita et magnanima virtù, esercitar questo eccellentissimo figlio di tutta quanta la generosa armata in mare del singolarissimo Gran Duca suo padre. /c. 83r/ LXXXXI. [392] Fra l'altre cose ch'osservavano di fare gl'antichi ne' loro sposalitii era di dar'ad assaggiare a la sposa novella mela cotogna, avanti che con lo sposo entrasse nel letto a consumar'il matrimonio. Et ciò era anche per comandamento di Solone, volendo darne ad intendere che i primi saggi, o la prima gratia che nasce dalla bocca della sposa debba esser tutta ben composta, grata et soave, o vero potiamo dire ancora perch'ella temperasse ogn'asprezza che nello sposo ritrovar si potesse et all'amor di lei giocondamente quello allettasse. Era questo pomo anche a Venere dedicato. LXXXXII. [393] Questa figura che hora ci s'offerisce davanti è quella di Prometeo, diritto in piedi appresso un'alta rupe, il qual tiene in dito un anello di ferro, tratto dalla catena che sta quivi pendente. Dicono Prometeo per haver'involato et tolto agli dei il fuoco dal cielo, et fattone parte agli huomini in terra, fu dal sommo Giove legato con durissima catena nel monte Caucaso et che poi dal medesimo, mosso a compassion di lui, ne fu disciolto et liberato. [394] Per che Prometeo, in /c. 83v/ memoria d'un tanto benefitio, prese un anello della catena che l'havea tenuto legato, in cui aggiunta una pietra del medesimo monte, se lo ripose in dito. Quindi poi si dice c'havesse origine l'usanza del legar le pietre negl'anelli. Da che avviene che solamente l'anello di ferro possa render'il significato della memoria de' ricevuti benifitii: il che è stato detto dimostrarsi nella figura del presente rivercio. LXXXXIII. [395] La donna che 'n questa medaglia leva la benda dagl'occhi d'Amore è la Ragione, la quale, tenuta dall'huomo nel suo dovuto seggio et con la dovuta potestà, non si lascia mai vincere, o superar da voglia, affetto, o passion veruna, amando sempre le cose secondo la natura loro et quella ogn'hora dirittamente stimando, et levandone ogni sorte di velo che dal senso et dall'appetito vi sia giamai posto sopra. LXXXXIIII. [396] Questi che hora ci si fanno incontra a cavallo sono i due fratelli et /c. 84r/ gemelli binati Castore et Polluce, de' quali da varii autori varie cose ne sono raccontate, et in varii modi si truovano effigiati et nella medaglia d'Adriano et in quella di Massimino impera(t)ori. Ma tutti pure col cappello in capo et una stella sopra essi, come quelli che con le stelle loro apparendo in cielo, rechino segno di salute a' naviganti. Dicono alcuni che mentre questi erano in vita fra gl'huomini si dilettarono grandemente et riposer molto studio nella bell'arte et honorata del cavalcare.